Il presente scritto (pubblicato in juscivile, 2021, 5) è stato amichevolmente dedicato al Prof. Avv. Michele Sesta dal Prof. Enrico Quadri, Professore ordinario di Istituzioni di Diritto privato dell’Università di Napoli Federico II. Esso si ricollega alla relazione introduttiva tenuta dal Prof. Quadri in occasione della prima sessione del corso “Il punto sugli aspetti patrimoniali del diritto di famiglia”, organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura, Struttura di formazione decentrata della Corte di Cassazione (15-17 settembre 2021).

SOMMARIO: 1. Premessa. Intervento giudiziale in tema di assegno di divorzio ed esigenze di riforma in materia di rapporti patrimoniali nella famiglia. – 2. Principio costituzionale di parità e rapporti patrimoniali nella famiglia. – 3. Il sistema complessivo dei rapporti patrimoniali nella famiglia e le sue criticità. – 4. Possibili rimedi tra principio contributivo e regime patrimoniale. – 5. Crisi familiare e autonomia degli interessati in campo patrimoniale. – 6. Assetti economici conseguenti alla crisi familiare e salvaguardia della parità delle parti. – 7. Oltre l’attuale disciplina?

1. – L’attualità della tematica che questo corso propone come oggetto di riflessione emerge a tutto tondo dalla lettura delle indicazioni programmatiche offerte nella sua “Presentazione”. Traspare da esse, infatti, la consapevolezza del fermento giurisprudenziale che caratterizza, da qualche tempo, nel fruttuoso dialogo tra i giudici di legittimità e di merito, la materia degli aspetti patrimoniali della famiglia. Un fermento di cui, invero, le indicazioni in questione finiscono col far cogliere, sia pure in filigrana, le reali motivazioni, laddove, nel rapportare l’intensa opera della giurisprudenza al contesto normativo, da una parte, non si manca di accennare espressamente a talune sue possibili prospettive de iure condendo; dall’altra, si evidenziano le tensioni sistematiche innescate dalle ancora recenti svolte legislative che hanno inciso sulla conformazione stessa della fenomenologia familiare.
In effetti, circa l’urgenza di ragionare sul tema, non si può fare a meno, in via preliminare, di sottolineare come, a fronte dell’impetuoso vento di riforma che ha investito la generalità delle altre problematiche familiari, sembri fare singolare contrasto la sostanziale staticità del quadro che l’ordinamento offre con riguardo, appunto, al regime dei rapporti patrimoniali nella famiglia. Qui il tempo sembra essersi fermato e, nonostante i diversi decenni trascorsi dalla riforma del diritto di famiglia e da quella del divorzio, assordante è stato il silenzio del legislatore, ogni anelito di cambiamento in materia essendo restato confinato, appunto, al solo intervento giurisprudenziale.
Certo, interventi come quello delle Sezioni Unite con la sua sentenza n. 18287 del luglio 2018 in tema di assegno divorzile, con il loro spessore sistematico, possono indubbiamente contribuire a soddisfare – anche attraverso gli sviluppi delle relative direttive di fondo e le precisazioni da parte della successiva giurisprudenza (e si ricordino, in particolare, le significative indicazioni contenute nella corposa ordinanza n. 21926/2019, che della decisione delle Sezioni Unite ha costituito una sorta di interpretazione autentica) – quell’esigenza di, almeno tendenziale, certezza, la quale, non pare quasi il caso di sottolinearlo neppure, particolarmente avvertita si presenta quando in gioco sono relazioni, come quelle familiari, in cui gli aspetti economici intersecano inevitabilmente quelli di carattere personale, spesso condizionandone, addirittura, gli sviluppi. Ma i limiti pur sempre connaturati allo strumento giudiziale, in quanto comunque esposto a instabilità, oltre che, in ogni caso, inevitabilmente destinato a muoversi nel contesto normativo vigente, sembrano investire ormai da tempo il legislatore della necessità di un articolato intervento in materia, tale, cioè, da rimediare alle criticità sin qui emerse, sempre nel quadro di un tessuto normativo complessivamente coerente e tale da mettere in grado chi è chiamato a confrontarsi con la realtà dei rapporti interpersonali di adeguarsi – con i minori margini possibili di incertezza – alle istanze provenienti dalla società.

Del resto, anche solo per limitare l’orizzonte alla specifica problematica dell’assegno di divorzio, un simile intervento legislativo sembra ora presentarsi massimamente auspicabile, soprattutto per consolidare durevolmente – almeno, ovviamente, ove se ne condivida obiettivi e linee di fondo, come risulta effettivamente fare il testo di riforma della materia già approvato dalla Camera dei deputati il 14 maggio 2019, a seguito della discussione concernente la p.d.l. n. 506 della XVIII legislatura – gli approdi esegetici delle Sezioni Unite, contro i tentativi di relativo ridimensionamento emergenti da talune successive discutibili prese di posizione all’interno della prima sezione della Cassazione, tendenti a fare surrettiziamente rivivere proprio la sostanza della impostazione delineata nella decisione n. 11504/2017, fermamente contrastata nel contesto della ricostruzione offerta dalle Sezioni Unite, col travisarne, in buona sostanza, il senso e la portata. Prese di posizione – riferibili a diverse ordinanze, in particolare da quelle nn. 21234 e 24935/2019, a quelle nn. 22537 e 24250/2021 – le quali, proprio per un simile solo affermato ossequio alle Sezioni Unite, non mancano, oltretutto, di porre inquietanti interrogativi sotto il profilo giudiziario-istituzionale, evidentemente alla luce del disatteso meccanismo di composizione dei conflitti nomofilattici di cui all’art. 374, comma 3, cod. proc. civ.

Non è difficile puntualizzare quale sia il pregio principale della ricordata decisione delle Sezioni Unite, che finisce, nel renderla vera e propria pietra di paragone per i successivi interventi giurisprudenziali in ordine ad ogni ulteriore problematica legata ai riflessi economici della crisi familiare (e si pensi anche solo ai dubbi palesati nell’ordinanza interlocutoria n. 28995/2020, su si ritornerà nel paragrafo conclusivo delle presenti considerazioni), col far emergere, al contempo, i limiti della relativa disciplina attuale.

Tale pregio, invero, sembra consistere nella consapevolezza che la soluzione della questione destinata ad essere più immediatamente investita non possa essere individuata prescindendo dal relativo inquadramento sistematico in quel contesto disciplinare complessivo delle relazioni patrimoniali nella famiglia, le cui linee l’interprete è chiamato a definire – nel quadro normativo vigente, ma anche nella prospettiva di sue possibili coerenti evoluzioni – alla luce dei principi e dei valori fondamentali governanti l’istituzione familiare nel nostro ordinamento.

Proprio nell’ampia articolazione della loro motivazione, le Sezioni Unite, allora, sembrano confermare quella che dev’essere assunta quale premessa imprescindibile di ogni intervento in tema di rapporti patrimoniali nella famiglia, almeno ove intenda presentarsi come ragionevole e accettabile sul piano sistematico. La constatazione, cioè, secondo cui, individuato, al riguardo, nel bilanciamento tra gli interessi in gioco, un obiettivo da considerarsi meritevole di realizzazione, evidentemente alla luce della tavola di valori fissata nella Costituzione in materia di relazioni familiari, al relativo perseguimento risultino destinati a giocare, in un così intimo intreccio che finisce col renderli interdipendenti, il regime patrimoniale operante nella fase fisiologica della convivenza, nella sua articolazione di derogabilità ed inderogabilità, e la regolamentazione dei rapporti economici in dipendenza della crisi familiare.

Regolamentazione, quest’ultima, pare pure il caso di ricordarlo fin dall’inizio, nel nostro ordinamento resa tuttora assai più complicata che altrove, in dipendenza della persistente caratterizzazione, per così dire, “a doppio binario”, della (ancora) vigente gestione normativa complessiva della crisi familiare, con il ruolo e la considerazione persistentemente riconosciuti alla separazione personale: istituto divenuto, invero, nel suo semisecolare relazionarsi con quello del divorzio, a dir poco di perplessa definizione funzionale e di (inevitabilmente) incerta collocazione sistematica, così da innescare quelle difficoltà, nella delineazione dello strumentario destinato a governare gli assetti economici post- coniugali, di cui la stessa già ricordata “Presentazione” del corso, appunto, non manca di prendere atto, quando accenna al sempre più – e si vedano, ad esempio, le conclusioni dell’ordinanza n. 17098/2019 – problematico rapporto tra l’assegno di separazione e l’assegno di divorzio (ma, forse, sarebbe preferibile senz’altro dire tra il regime economico conseguente alla separazione e quello tendente alla finale definizione, in sede di divorzio, della relazione economica tra i coniugi).

2. – Ogni riflessione circa gli obiettivi complessivamente da perseguire in materia di rapporti patrimoniali nella famiglia pare dover muovere dal richiamo delle finalità della riforma del 1975, quali identificate dalla Corte costituzionale nella fase conclusiva della sua elaborazione (n. 187/1974). Il compito del legislatore veniva con chiarezza individuato nella necessità di “procedere ad una piena attuazione del principio costituzionale della parità giuridica dei coniugi anche sotto il profilo dei rapporti patrimoniali”.

Di conseguenza, il valore da tenere sempre presente come fondamentale non può che essere quello, scolpito nell’art. 29 Cost., della “eguaglianza dei coniugi”, evidentemente da attualizzare promuovendo una loro piena e sostanziale parità anche sotto il profilo economico, a salvaguardia di un effettivo rispetto della dignità di entrambi. E, al riguardo, non si può fare a meno di rilevare, da una parte, come quasi ovunque sia stata proprio l’esigenza di realizzare una sempre più piena eguaglianza tra i coniugi a propiziare la ridefinizione, sul piano giuridico, degli assetti patrimoniali della famiglia; dall’altra, come sembri sostanzialmente pacifico che ciò irrinunciabilmente comporti – quale indefettibile riflesso di quell’integrazione delle sfere esistenziali che rappresenta l’essenza stessa del fenomeno matrimoniale – la necessità di assicurare reciprocamente alle parti un’adeguata partecipazione a quanto complessivamente costruito insieme, dal punto di vista economico, durante la realizzata comunità di vita.

Né può ritenersi affermazione azzardata quella secondo cui sarebbe consentito rilevare,
negli ordinamenti a noi vicini, una diffusa tendenza a dare risalto ad una simile istanza partecipativa e perequativa. Sono state le stesse Sezioni Unite ad individuare una simile tendenza, proprio quale espressione di una diffusamente ricercata “pari dignità degli ex coniugi”: con ciò lasciando intendere come il relativo obiettivo sia da realizzare quale risultato finale dell’accennato intreccio dell’operatività del regime patrimoniale matrimoniale e di quello post-matrimoniale, in una prospettiva complessivamente realizzativa – appunto attraverso la valorizzazione della “preminenza della funzione perequativa” – dei valori individuabili alla luce di una combinata lettura “degli artt. 2, 3, 29” della nostra Costituzione.

Non appare difficile cogliere il senso di un simile intreccio di operatività tra regime patrimoniale matrimoniale e regime economico post-matrimoniale. In effetti, risulta chiaro, in proposito, come ogni carente funzionamento del regime patrimoniale durante la fase fisiologica della convivenza, sotto quel punto di vista perequativo che rappresenta, come dianzi evidenziato, la via obbligata alla parità, finisca col proiettare inevitabilmente il soddisfacimento della relativa istanza sul piano dei meccanismi concernenti la definizione degli assetti economici in occasione della crisi familiare. Insomma, l’esigenza è quella di dar vita ad un sistema complessivo che, per assicurare la realizzazione dell’obiettivo dell’effettiva eguaglianza degli interessati, tenda ad equilibrare l’indiscutibilmente sempre più avvertito valore della libertà, da garantire anche nella sua più estrema prospettiva – su cui, ormai da tempo, non manca di convenire anche la giurisprudenza, con l’alludere al “diritto” di ciascun coniuge ad “interrompere la convivenza” (secondo le conclusioni di Cass. n. 21099/2007) – della discrezionale risolubilità unilaterale della relazione di vita, con quelli di condivisione, responsabilità e solidarietà, che sembrano imporre, appunto, un adeguato rispetto e riconoscimento delle aspettative economiche maturate da ciascuna delle parti sulla base del contributo concretamente prestato alla compagine familiare ed al relativo benessere. E le Sezioni Unite sembrano ora cogliere pienamente il senso di ciò, quando – integrando qui le conclusioni della loro decisione del 2018 con quelle di un’altra, pure ancora recente (n. 16379/2014) – evidenziano come il costituire i concreti assetti familiari “frutto di scelte
comuni fondate sull’autodeterminazione e sull’autoresponsabilità di entrambi i coniugi”, tali da imprimere alle loro “condizioni personali ed economiche un corso, soprattutto in relazione alla durata del vincolo, anche irreversibile”, renda il vissuto rapporto di vita comune fonte di “diritti inderogabili”, di “aspettative legittime” e di “legittimi affidamenti”.

Del resto, solo ad un osservatore superficiale potrebbe sembrare che la rilevanza che tende, così, ad essere conferita al profilo perequativo-compensativo e partecipativo nella configurazione del regime patrimoniale, anche – e forse soprattutto – ai fini della disciplina delle conseguenze della crisi familiare, si ponga in contrasto con l’allentamento del vincolo, in atto da noi come altrove. Infatti, è da ritenere che una simile conformazione in senso perequativo-compensativo e partecipativo delle dinamiche patrimoniali della famiglia finisca, anzi, con l’assumere, in una prospettiva di salvaguardia dell’eguale dignità di ciascuna delle parti, una significativa portata di opportuno bilanciamento dell’accennata facoltà accordata anche solo ad una di esse di interrompere definitivamente la comunità di vita familiare, almeno in presenza di una pregressa effettivamente realizzata reale interdipendenza delle relative sfere personali e patrimoniali.

Di notevole rilevanza risulta il contributo sistematico offerto dalle Sezioni Unite nel 2018 alla definizione del quadro dei principi fondamentali destinati a governare i rapporti patrimoniali nella famiglia.

In particolare, pare meritevole di segnalazione il tentativo di superare la concezione, sostanzialmente fatta propria dalla prima sezione con la sua giurisprudenza ispirata all’impostazione di Cass. n. 11504/2017 (peraltro, pur dopo l’intervento delle Sezioni Unite, come dianzi accennato, surrettiziamente e persistentemente riemergente nel contesto della giurisprudenza di legittimità), tendente ad individuare in quelli di “autoresponsabilità” e di “solidarietà” valori in linea di principio antitetici. In effetti, una volta assunte “autodeterminazione” ed “autoresponsabilità” quale fondamento della “conduzione della vita familiare”, in quanto considerata, appunto, “frutto di scelte libere e condivise”, proprio queste finiscono col rappresentare la giustificazione di quella “declinazione costituzionale del principio di solidarietà”, che impone di perseguire l’obiettivo della perequazione degli assetti economici delle parti in funzione di effettiva garanzia del rispetto della loro “pari dignità dei ruoli”.

In una simile ottica, allora, un fermo richiamo all’art. 29 Cost., anche, quindi, nel momento del venir meno del vincolo matrimoniale ed ai fini della disciplina dei relativi riflessi economici, è destinato ad acquistare il senso di riconoscere all’apporto di ciascuno dei coniugi alla comunità di vita familiare il valore di fondamento di pretese riequilibrative, tali non da risolversi in “un’inesistente ultrattività dell’unione matrimoniale”, ma semplicemente da offrire a ciascuno di essi, attraverso un’adeguata partecipazione a quanto costruito insieme durante il matrimonio, le condizioni per affrontare in maniera effettivamente autonoma e dignitosa i successivi separati percorsi di vita.

Con ciò, a ben vedere, può pure ritenersi superata la sin qui diffusamente avvertita necessità di qualificare la “solidarietà” posta a base del riconoscimento dei conseguenti diritti nei termini equivoci – se non addirittura intrinsecamente contraddittori – di una “solidarietà post-coniugale”, trattandosi, in realtà, del prendere semplicemente atto dell’operatività della “solidarietà coniugale” e “del principio contributivo” che ne costituisce espressione nella relativa – inevitabile, almeno ove s’intenda conferire significato alla scelta matrimoniale da parte degli interessati – proiezione sugli assetti economici delle parti nel momento terminale della loro esperienza di vita comune.

Inoltre, proprio la concezione, avallata dalle Sezioni Unite, tendente a guardare alla configurazione degli assetti economici coniugali in un’ottica complessivamente realizzativa di obiettivi perequativi (senza, insomma, “soluzione di continuità” tra le fasi che scandiscono l’esperienza matrimoniale), sembra consentire, a ben vedere, di assumere lo stesso principio di “autoresponsabilità” quale chiave di volta degli assetti economici post-coniugali, secondo quanto auspicato proprio dalla prima sezione della Cassazione nel 2017 e – appunto in tema di riconoscimento di contribuzioni post-matrimoniali – teorizzato dal legislatore tedesco nel vigente § 1569 BGB (intitolato, appunto, in termini di “Grundsatz der Eigenverantwortung”).

Invero, nella fluidità delle dinamiche familiari caratterizzante l’attuale società, l’assunzione di un simile principio quale direttiva di fondo nella definizione degli assetti economici post-coniugali può realmente acquistare il senso di un ragionevole approdo in materia, in quanto sicuramente più consono – se confrontato con la fin qui da noi accreditatasi prospettiva (più o meno rigorosamente) assistenzialistica – alla promozione ed al rispetto della pari dignità degli interessati. Ma ciò alla sola condizione che sia assicurata tra di loro, quale base di partenza per la futura vita separata, una effettiva perequazione in ordine alla partecipazione a quella complessiva economia familiare, cui ciascuno abbia contribuito nel corso della convivenza, ponendosi rimedio, in tal modo, alle sperequazioni venutesi eventualmente a determinare nella situazione patrimoniale delle parti in dipendenza delle “scelte comuni” in ordine alla “conduzione della vita familiare”. Riequilibrio, questo, ovviamente realizzabile, secondo quanto risulta evidenziato dalle Sezioni Unite, anche – e, forse, preferibilmente – già attraverso quella “ripartizione pregressa delle risorse e del patrimonio familiare”, conseguente all’operatività di un regime patrimoniale coniugale a ciò adeguatamente funzionale (come quello tedesco della Zugewinngemeischaft, neanche troppo implicitamente evocato dalle stesse Sezioni Unite, quando esse allargano il loro orizzonte al quadro comparatistico della materia).

3. – Alla luce di quanto sin qui osservato, risulta chiaro come una riflessione sul nostro diritto patrimoniale della famiglia, finalizzata ad evidenziarne le criticità da risolvere sul piano esegetico o con la promozione di interventi legislativi, non possa che seguire un itinerario che trascorra dal regime patrimoniale operante nella fase fisiologica dell’esperienza familiare a quello destinato a conformare gli assetti economici nella relativa patologia.

Quanto alla fase fisiologica, costituisce osservazione corrente come – tanto nel nostro, quanto nella generalità degli ordinamenti a noi più vicini – l’obiettivo della parità tra i protagonisti dell’esperienza familiare sia stato perseguito sviluppando l’intervento legislativo essenzialmente su due livelli. Al primo livello si colloca, in tale prospettiva, il regime contributivo, quale insieme di direttive inderogabili, mentre al secondo livello si collocano le regole proprie del regime patrimoniale – di carattere, invece, tendenzialmente derogabile – destinate ad operare subordinatamente alle prime, in ordine all’acquisto, alla gestione ed alla distribuzione finale dei beni. L’ancora vigente sistema delineato nel 1975 si caratterizza, così, da una parte, per la previsione del regime contributivo, quale tratteggiato negli artt. 143, comma 3, e 144, cod. civ., avente, secondo una ricostruzione rimasta ineguagliata per la sua incisività, la funzione di “integrare nei rapporti patrimoniali l’ordinamento solidale, affidato alla determinazione congiuntiva e all’attuazione disgiuntiva dell’indirizzo familiare”. Dall’altra, per l’introduzione, quale regime patrimoniale “legale”, della “comunione dei beni”, in quanto regime ritenuto più rispondente all’obiettivo di realizzare in maniera ottimale il principio della parità delle parti,
attraverso una soddisfacente perequazione delle rispettive situazioni patrimoniali.

Non è da nascondere come il carattere “legale” conferito, in sede di riforma, al regime di “comunione dei beni” abbia finito col condizionare fortemente, da noi, la configurazione del regime contributivo, inducendo a trascurare l’opportunità di una sua più puntuale articolazione, secondo quanto risulta significativamente avvenuto in altri ordinamenti (come, in particolare, in quello francese), dove evidentemente maggiore è stata la consapevolezza del ruolo essenziale che quello correntemente identificato in termini di “regime primario imperativo” è chiamato a giocare in vista della realizzazione di una effettiva pari dignità dei coniugi, in considerazione del carattere pur sempre derogabile del regime patrimoniale “legale”.

Peraltro, la fiducia del legislatore nella valenza anche promozionale dell’adozione di quello di comunione quale regime patrimoniale “legale” si è dimostrata infondata e fin troppo noto è il conseguente fenomeno – quali che siano le relative motivazioni – dell’imponente “fuga” dalla comunione, essendo divenuta quasi di stile (e spesso neppure adeguatamente consapevole) la scelta in senso radicalmente separatista. E la gravità delle conseguenze di ciò si apprezza pienamente nel momento della crisi familiare, quando la carente operatività dal punto di vista solidaristico-perequativo del regime patrimoniale nella fase fisiologica della convivenza – appunto in conseguenza di una opzione separatista slegata da un effettivo superamento delle asimmetrie tra gli interessati – finisce inevitabilmente col proiettare il soddisfacimento della relativa esigenza sul piano delle valutazioni concernenti gli assetti economici conseguenti alla crisi.

Il rischio di dar vita, in non pochi casi, a pericolosi circoli viziosi è qui in agguato, come hanno dimostrato le diffusamente denunciate possibili conseguenze delle prese di posizione giurisprudenziali in materia di contribuzioni post-matrimoniali riconducibili all’impostazione di Cass. n. 11504/2017: conseguenze, del resto, che le Sezioni Unite risultano avere ben presenti nel loro fondamentale intervento in tale materia, laddove invitano a non trascurare mai, nelle relative valutazioni, quel “forte condizionamento che il modello di relazione matrimoniale prescelto dai coniugi può determinare nella loro condizione economico-patrimoniale successiva allo scioglimento”, dovendosi, oltretutto, tenere pure adeguatamente conto della “perdurante situazione di oggettivo squilibrio di genere nell’accesso al lavoro, tanto più se aggravato dall’età” (insomma, per dirla senza mezzi termini, dei condizionamenti persistentemente ancora gravanti diffusamente, nella realtà socio-economica, sulla situazione della donna-moglie-madre).

4. – Non pare consentito, in questa sede, di andare al di là di un mero (e sommario) catalogo di possibili vie di uscita, ipotizzabili a fronte delle diffusamente avvertite problematicità caratterizzanti, nella sua complessiva articolazione, l’attuale sistema dei rapporti patrimoniali nella famiglia.

Al riguardo, ovviamente, non si può mancare di conferire una fondamentale rilevanza all’insistente richiamo, ora operato dalle Sezioni Unite, alla “rete di diritti e doveri fissati dall’art. 143 c.c.”, significativamente assunti quale “perfetta declinazione” del “modello costituzionale dell’unione coniugale, incentrata sulla pari dignità dei ruoli che i coniugi hanno svolto nella relazione matrimoniale”.

Proprio in una simile prospettiva, allora, pare innanzitutto imporsi, anche solo attraverso un più corretto impiego dello strumentario esegetico, la promozione di una, per così dire, “riscoperta” del “principio contributivo” e delle sue potenzialità operative, quale guida sicura per quei bilanciamenti degli interessi di volta in volta coinvolti, tanto nel corso dell’esperienza di vita familiare, quanto nel momento del passaggio dalla vita comune a quella separata. Non si dimentichi, in effetti, come sia proprio all’inderogabile operatività delle sue direttive che si ritiene unanimemente restare demandato, a prescindere dal regime patrimoniale – correntemente definito in termini di “secondario”, appunto in contrapposizione, come accennato, a quello “primario imperativo”, costituito dal regime contributivo – in concreto funzionante tra le parti, il conseguimento degli essenziali ed irrinunciabili obiettivi di solidale eguaglianza, in attuazione del principio costituzionale di parità, di cui all’art. 29 Cost.

E, in proposito, il pensiero – anche alla luce di modelli sperimentati in ordinamenti a noi vicini (e spesso richiamati come possibile modello per il nostro) – corre quasi inevitabilmente (almeno) ad un possibile ripensamento delle attuali soluzioni interpretative in ordine a problematiche quali, in particolare, quella della responsabilità per le obbligazioni contratte per il soddisfacimento di necessità familiari e quella del regime della casa familiare, nel nostro ordinamento, come l’esperienza insegna, troppo angustamente, e soprattutto tardivamente, ove si ponga mente al carattere pure esistenziale degli interessi coinvolti, preso in considerazione al momento del venir meno della compagine familiare.

Più complesso, ma comunque pur sempre strettamente connesso con quello concernente l’operatività del “principio contributivo”, pare presentarsi il discorso concernente la conformazione del regime patrimoniale operante nella fase fisiologica, nella dialettica tra autonomia degli interessati ed intervento legislativo.

Da un primo punto di vista, la scarsa propensione ovunque dimostrata dagli interessati ad allontanarsi dagli schemi legalmente tipizzati, in una con lo scarso favore dimostrato per gli schemi predisposti nel contesto della riforma del 1975, al di fuori della comunione legale o della sua mera e radicale esclusione con la scelta separatista, dovrebbe indurre ad attirare l’attenzione del legislatore nel senso di una possibile “tipizzazione”, in via normativa, di eventuali varianti del modello “legale” di comunione.

Tipizzazione, del resto, ben nota ad altri ordinamenti, dove non si manca di coinvolgere lo stesso criterio di ripartizione finale delle risorse, indubbiamente, allo stato, troppo rigidamente imbrigliato dall’inderogabilità di quella regola assolutamente paritaria (artt. 194, comma 1, e 210, comma 3), la quale – alla luce della intervenuta evoluzione dei rapporti familiari nella società – sembra chiamata a dover fare i conti con la crescente esigenza di aumentare gli spazi da riconoscere a consapevoli e ragionevoli determinazioni autonome degli interessati.

Sotto un diverso profilo, pare il caso di rilevare come sicuramente condivisibile sia la sempre più diffusa spinta ad intervenire anche sull’opzione normativa di fondo in materia, quella, cioè, concernente la scelta del medesimo regime patrimoniale “legale”. Proprio al riguardo, del resto, le Sezioni Unite non hanno mancato di cogliere quanto un regime che ponga capo ad una concreta “ripartizione pregressa delle risorse e del patrimonio familiare” possa valere – anche solo in dipendenza della conseguente “eccezionalità dell’assegno di divorzio” – a sdrammatizzare, almeno in larga misura, lo stesso discorso concernente i meccanismi che, al momento della crisi familiare, sono chiamati a governarne i profili economici, sempre in vista del perseguito obiettivo della garanzia della parità delle parti. Ma si deve trattare, evidentemente, di un regime tale da evitare quella macchinosità caratterizzante le regole operative dell’attuale comunione legale, la quale, come accennato, ha sicuramente propiziato il fenomeno della “fuga” da essa.

Non a caso, e la prospettiva sembra ora potersi cogliere, anche se in filigrana, nella motivazione delle stesse Sezioni Unite, l’attenzione resta persistentemente attratta – come già lo fu, invero, all’epoca della riforma del 1975 – da un modello che ha acquistato progressivamente spazio negli ordinamenti a noi più vicini e che sembra aver dato buona prova di efficienza, tanto da scoraggiare una (pur possibile) “fuga” da esso. L’allusione, ovviamente, è al modello tedesco della Zugewinngemeinschaft, di quel regime, cioè, di “partecipazione agli acquisti”, anche in Svizzera assunto, da qualche tempo, quale “legale”, dopo essere stato messo a disposizione, in Francia, come regime comunitario opzionale alternativo (e come tale, nel 2010, significativamente preso in considerazione pure in sede convenzionale tra Francia e Germania).

5. – Ma, ovviamente, è nel momento della crisi che sono destinati a venire al pettine i nodi legati alla realizzazione del valore di parità nei rapporti patrimoniali coniugali. Come si è già accennato, in effetti, ogni carente operatività, sotto tale profilo, del regime patrimoniale nella fase fisiologica della convivenza risulta destinata a proiettare il soddisfacimento delle eventualmente insoddisfatte relative esigenze perequative sul piano delle valutazioni concernenti gli assetti economici delle parti in occasione, appunto, della crisi della comunione di vita.

La riflessione qui pare dover investire due problematiche, peraltro strettamente connesse tra loro, tanto dal finire col presentarsi sostanzialmente interdipendenti. Da una parte, la perimetrazione della portata da riconoscere all’autonomia degli interessati nella regolamentazione dei propri rapporti patrimoniali nella prospettiva della crisi familiare. Dall’altra, la definizione dell’equilibrio che, negli assetti economici conseguenti alla crisi familiare, sia comunque (e, quindi, inderogabilmente) da garantire.

Quanto al primo profilo, il tema tocca i meccanismi di controllo dell’autonomia in questione. Tema, invero, da affrontare con urgenza, in considerazione della rinnovata attenzione, ormai anche a livello di iniziative di intervento legislativo, per la controversa materia dei c.d. “accordi prematrimoniali” (pp.dd.ll. nn. 2669 della XVII legislatura e 244 della XVIII legislatura, nonché art. 1, lett. b, d.d.l. n. 1151 della XVIII legislatura). E pare il caso di sottolineare come proprio con la delimitazione della portata da riconoscere all’autonomia degli interessati nella regolamentazione dei propri rapporti patrimoniali, nella fisiologia e nella patologia dell’esperienza familiare, risulta chiamata inevitabilmente a confrontarsi pure la riflessione in ordine agli indirizzi da imprimere alla disciplina del fenomeno successorio in considerazione dell’attuale realtà dei rapporti familiari, con particolare riguardo, anche in proposito, alla sfera di autonomia da riconoscere agli interessati nella relativa dinamica (in un’ottica, cioè, di diffusamente auspicato superamento della rigidità delle attuali regole codicistiche in materia di patti successori e di tutela dei legittimari).

Nota è la radicale posizione della nostra giurisprudenza in ordine agli accordi economici conclusi – anche in sede di separazione personale – in vista del divorzio. In proposito, c’è da chiedersi, però, se la soluzione estrema – persistentemente emergente dalla giurisprudenza della Cassazione (già n. 3777/1981, poi n. 1810/2000 e, ancora, n. 2224/2017, confermata, da ultimo, dall’ordinanza n. 11012/2021) – della nullità per illiceità della causa, per “violazione del principio fondamentale di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale di cui all’art. 160”, sia realmente rispettosa di un ragionevole bilanciamento degli interessi in gioco o se ci si potrebbe incamminare, già allo stato e in via esegetica, in una diversa e meno drastica direzione.

In effetti, si tratta, a ben vedere, di trovare un punto di equilibrio tra le diffuse istanze di maggiore autonomia degli interessati e la portata da riconoscere a quei “diritti inderogabili”, a quelle “aspettative legittime” ed a quella necessaria rilevanza delle “condizioni personali ed economiche” delle parti conseguenti al condiviso modello di “conduzione della vita familiare”, su cui le Sezioni Unite hanno incentrato i loro ricordati due recenti interventi del 2014 e del 2018. E, in proposito, l’avvenuto tramonto della fede nel carattere “esclusivamente assistenziale” delle contribuzioni post-matrimoniali potrebbe propiziare, nel rispetto di un simile bilanciamento, posizioni di una qualche apertura in materia (non ignote, del resto, alla stessa giurisprudenza anteriore alla riforma del 1987). Al riguardo, del resto, non si è mancato di conferire un possibile significato ad un’affermazione contenuta nella motivazione della stessa decisione delle Sezioni Unite in tema di definizione degli assetti economici post-matrimoniali, laddove – sia pure nei limiti di un obiter dictum – alludono ad una “natura prevalentemente disponibile dei diritti in gioco”.

Certo, pure nel contesto della valorizzazione dell’autonomia delle parti in vista della
conformazione delle conseguenze economiche della fine del loro rapporto di vita, non si può comunque fare a meno di assumere come punto fermo – per conservare un qualche senso alla peculiarità dell’esperienza familiare ed al significato da conferire, in particolare, alla scelta matrimoniale, su cui pure hanno insistito le Sezioni Unite nel 2014 e nel 2018 – quello della essenziale garanzia, in ogni caso, della pari dignità delle parti interessate, assicurando, quale “limite invalicabile”, la “necessaria mancanza di un contrasto tra gli accordi patrimoniali e norme inderogabili”, secondo quanto evidenziano le Sezioni Unite anche nella loro recentissima decisione concernente la portata degli accordi di separazione consensuale e di divorzio a domanda congiunta (n. 21761/2021).

In proposito, all’inevitabile richiamo all’art. 160 cod. civ., sembra allora consentito – soprattutto alla luce della ripetutamente dianzi richiamata interdipendenza tra l’operatività del regime patrimoniale coniugale e la definizione dei rapporti economici in dipendenza della crisi definitiva della famiglia – conferire una portata tale da tentare di superare il persistente contrasto concernente, appunto, la portata della previsione di inderogabilità di cui a tale fondamentale norma. Non si tratta, cioè, richiamandosi ad essa, come pure da molti paventato, di cercare di rendere “ultrattivi” i diritti e doveri matrimoniali, ma, piuttosto, di assicurare, in attuazione del principio della pari dignità dei coniugi, che le valutazioni destinate definire gli assetti economici di coloro che hanno vissuto un’esperienza di vita comune – proprio per restare coerenti con le relative scelte esistenziali – non trascurino il grado di avvenuta integrazione delle sfere personali e patrimoniali delle parti e le relative conseguenze sulla loro situazione al momento dell’estinzione del rapporto. È proprio una simile insuperabile necessità valutativa, insomma, che dev’essere assunta quale fondamentale criterio direttivo per affrontare le problematiche economiche che la dissoluzione della compagine familiare pone all’interprete.

In tale prospettiva, una operatività degli accordi rispettosa dell’accennato ambito di inderogabilità pare poter essere assicurata, innanzitutto, attraverso una verifica, per così dire, “finale”, degli accordi, in considerazione, cioè, dell’evoluzione degli assetti familiari nella concreta dinamica della comunità di vita: verifica, questa, da reputare ineludibile – secondo quanto, non a caso, si tende diffusamente a concludere sul punto – soprattutto nell’ipotesi di significativo distacco temporale tra il momento dell’accordo e la definizione degli assetti economici post-coniugali. Appare evidente, in effetti, come in tal caso particolarmente avvertita si presenti l’incidenza di quella connessione tra i principi di “autodeterminazione”, “autoresponsabilità” e “solidarietà”, che costituisce, come si è avuto modo di constatare, il fulcro della recente ricostruzione della materia patrimoniale familiare da parte delle Sezioni Unite. Singolare sarebbe, in caso contrario, il contrasto con la propensione che da tempo viene ovunque crescentemente manifestata – altrove, ormai, addirittura mediante espresse enunciazioni normative – nella direzione di una generale rilevanza, in materia contrattuale, dell’evoluzione delle circostanze, pure attraverso il ricorso allo strumento di una, eventualmente imposta, rinegoziazione. Insomma, un simile esito esegetico, nel ricollegarsi alla tradizionale operatività della clausola rebus sic stantibus, risulta imporsi anche al di là di qualsiasi eventuale richiamo alle, pur indubbie, peculiarità delle relazioni che si sviluppano nel contesto familiare, e in particolare matrimoniale, con la conseguente avvertita esigenza, nel relativo trattamento, almeno di un adattamento alle peculiarità in questione delle regole comuni governanti la materia patrimoniale: pure, cioè, nell’ottica propria della tendenza alla “despecializzazione” delle regole destinate a governare i rapporti familiari, con la connessa coerente estensione al relativo ambito, comunque, dei principi generali destinati ad assicurare il controllo dell’autonomia privata.

Nella medesima ottica fondata sulla valorizzazione dell’art. 160 cod. civ., nella portata dianzi delineata, il controllo degli accordi in questione sembra doversi articolare, peraltro, anche in una diversa direzione. Si tratta di quel controllo che potrebbe essere definito in termini di “equità” delle adottate pattuizioni, onde assicurare, nel momento dissolutivo del rapporto, ed appunto nella prospettiva della indisponibilità dei riflessi del principio contributivo sugli assetti economici conseguenti alla crisi definitiva dell’unione coniugale, un’adeguata tutela alle ragioni della parte che proprio lo sviluppo della vicenda familiare, attraverso le concordate scelte esistenziali, abbia posto in condizioni di debolezza. E ciò, ovviamente, almeno ove si intenda conferire ad esse quella “definitività” degli assetti economici convenuti che, con l’interruzione di qualsiasi successivo rapporto tra le parti, sembra effettivamente meglio armonizzarsi con la conseguita libertà, di ciascuna di esse, di intraprendere anche eventuali ulteriori percorsi di vita affettiva e familiare.

Al riguardo, pare difficile contestarne la necessità, anche solo alla luce delle esperienze diffuse – sia pure, ovviamente, con diverse modalità – nella generalità degli altri ordinamenti. Del resto, una simile conclusione non fa altro che prendere doverosamente atto delle scelte sistematiche del nostro, quali emergenti, in particolare, da quel comma 8° dell’art. 5 l. div., il quale sembra da assumere come espressione di un vero e proprio principio generale in ordine ai limiti di vincolatività delle soluzioni concordate in vista della definizione degli assetti economici post-coniugali.

Il nodo da sciogliere resta, allora, essenzialmente quello concernente il carattere preventivo o successivo di un simile controllo: problema, questo, probabilmente suscettibile di una risposta – tanto, de iure condito, sul piano esegetico, quanto, de iure condendo, su quello della più opportuna conformazione di eventuali interventi legislativi di riforma – da articolare a seconda della tipologia delle procedure finalizzate all’accertamento del venir meno definitivo della comunità coniugale. Con ciò intendendosi alludere essenzialmente al relativo carattere giudiziale ovvero, come pure da noi consentito a partire dal 2014, stragiudiziale: a queste ultime, proprio per coerenza con il senso della scelta ordinamentale di affidarsi anche qui all’autonomia degli interessati, meglio attagliandosi, evidentemente, almeno ove non sia in gioco la tutela del preminente interesse dei figli, il modello del controllo in via successiva, su istanza della parte che, eventualmente, reputi ricorrerne le condizioni.

6. – Risulta palese come, anche nell’ottica della dianzi delineata esigenza di controllo dell’autonomia degli interessati nella regolamentazione dei propri rapporti patrimoniali in vista della (definitiva) crisi familiare, finisca con l’assumere preliminare rilievo l’individuazione di quale debba essere l’equilibrio che, negli assetti economici conseguenti alla crisi, sia comunque da garantire.

Il nocciolo della questione sembra qui concentrarsi in una inevitabile opzione: quella tra il considerare l’esperienza familiare, e specificamente matrimoniale, alla stregua di una tendenzialmente irrilevante parentesi nella vita di due “persone singole”, secondo la prospettiva in tema di assegno di divorzio fatta propria, nel 2017, dalla prima sezione della Cassazione (e strisciantemente ancora presente – come si è accennato all’inizio delle presenti considerazioni – in talune esternazioni più recenti della stessa sezione); ovvero, almeno ove una simile esperienza sia realmente consistita – per usare le parole impiegate dalle Sezioni Unite nella loro ormai lontana pronuncia n. 11490/1990 – in “una vera comunione di vita e di interessi”, l’assumerla come base di partenza, per consentire a ciascuna delle parti un successivo autonomo percorso esistenziale.

Il riferimento al “tenore di vita”, quale espressione concreta della condivisa integrazione delle sfere personali e patrimoniali in cui si risolve il dovere di contribuzione, ha rappresentato, per quasi trent’anni, nella giurisprudenza, la via attraverso cui mettere in condizione l’ex coniuge di partecipare a quanto realizzato in campo economico durante la convivenza familiare. Ma si è trattato di una via solo traversa (le Sezioni Unite parlano di “modo riflesso”), fin troppo facilmente imputabile di occultare una sistematicamente inconcepibile “ultrattività” del vincolo. E ciò anche solo per la difficoltà di operare, in tale prospettiva, una chiara e convincente distinzione rispetto all’assegno di mantenimento, quale attribuibile, secondo l’impostazione consolidata della giurisprudenza in materia, in conseguenza della separazione personale dei coniugi sulla base del presupposto, in tale fase – allo stato della legislazione ancora necessitata, in considerazione delle condizioni persistentemente richieste per il divorzio – della crisi coniugale, della “permanenza del vincolo coniugale” (come tuttora risulta sottolineato nelle ordinanze n. 17098/2019 e n. 5605/2020).

Proprio la rottura con una simile ricostruzione da parte della prima sezione nel 2017 ha fatto avvertire in pieno – soprattutto, evidentemente, in considerazione del dianzi denunciato pericolo di avvitamento in un circolo vizioso con la carente operatività del regime patrimoniale coniugale – i rischi della concezione in chiave “esclusivamente assistenziale” delle contribuzioni eventualmente da riconoscere in sede di divorzio, fondata sul persistente ossequio a quell’approccio “bifasico” al riconoscimento dell’assegno, radicato nelle conclusioni della decisione delle Sezioni Unite del 1990, ma infine radicalmente contestato dalle stesse Sezioni Unite nella sentenza del luglio 2018.

Punto di partenza del nuovo indirizzo è stata la consapevolezza “del forte condizionamento che il modello di relazione matrimoniale prescelto dai coniugi può determinare sulla loro condizione economico-patrimoniale successiva allo scioglimento”. E il risultato “di una interpretazione dell’art. 5, comma 6, più coerente con il quadro costituzionale di riferimento costituito dagli artt. 2, 3 e 29 Cost.”, è stato dichiaratamente rappresentato – secondo una impostazione rispecchiata, del resto, nelle pp.dd.ll. nn. 4605 della XVII legislatura e 506 della XVIII legislatura (da cui deriva del testo approvato dalla Camera dei deputati il 14 maggio 2019) – dall’abbandono della “rigida distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell’assegno di divorzio”, con la piena valorizzazione – attraverso “una valutazione integrata” e con “rilievo direttamente proporzionale alla durata del matrimonio” (da considerare, quest’ultima, vera e propria spia dell’effettiva realizzazione di una “comunione materiale e spirituale tra i coniugi”, come insistono ad evidenziare le stesse Sezioni Unite nella più recente decisione n. 9004 del 2021) – “degli indicatori
delle caratteristiche della unione matrimoniale così come descritti nella prima parte” della disposizione in questione (necessariamente da considerare, insomma, punto di riferimento di “un esame esegetico unitario”, in quanto solo atto ad evitarne arbitrarie eterointegrazioni: “criteri”, che “costituiscono nel loro complesso il parametro di riferimento”, quindi, “tanto della valutazione relativa all’an debeatur quanto di quella relativa al quantum debeatur”, secondo la chiara sintesi delle Sezioni Unite n. 9004/2021). L’attenzione, di conseguenza, per evitare di “azzerare l’esperienza della relazione coniugale”, si è concentrata sulla “funzione perequativa e riequilibratrice dell’assegno di divorzio”, in tal senso risultando declinato “il principio di solidarietà posto a base del diritto” ad esso.

Pare qui il caso solo di sottolineare come peso decisivo – in tale prospettiva assumendosi il necessario riferimento al “principio di autodeterminazione e di autoresponsabilità” – sia stato conferito, così, alla considerazione secondo cui “la conduzione familiare è il frutto di decisioni libere e condivise alle quali si collegano doveri ed obblighi che imprimono alle condizioni personali ed economiche dei coniugi un corso, soprattutto in relazione alla durata del vincolo, anche irreversibile”. La “preminenza della funzione perequativa”, nel rendere sostanzialmente residuale la portata di quella assistenziale (ove intesa nel senso in cui le Sezioni Unite parlano di un possibile “profilo strettamente assistenziale dell’assegno, qualora una sola delle parti non sia titolare di redditi propri e sia priva di redditi di lavoro”), diventa, seguendo un simile itinerario, attento alla “pluralità di modelli familiari” ed alla connessa invitabile “molteplicità di situazioni personali conseguenti allo scioglimento del vincolo”, l’unica via per assicurare la concreta realizzazione del valore costituzionale della “pari dignità” delle parti.

Il riferimento all’art. 29 Cost., allora, lungi dall’assumere il senso di una sistematicamente inconcepibile evocazione di “ultrattività” di un vincolo, per definizione, ormai definitivamente
sciolto, vale semplicemente ad evidenziare come, nel momento del venir meno della comunità di vita, la situazione di ciascuno degli ex coniugi non possa che essere valutata – nel contesto di un “giudizio anche prognostico” – conferendo peso adeguato, in un’ottica dinamico-relazionale, ai riflessi ed ai condizionamenti che su di essa abbiano avuto i concordati assetti familiari. Ciò, appunto nella perseguita prospettiva “perequativo-compensativa”, valorizzando quel “contributo personale ed economico fornito da ciascun coniuge alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno ed a quello comune” (anche, in particolare, col “sacrificio delle aspettative professionali e reddituali”), destinato, allora, ad assumere un vero e proprio “rilievo causale” – come tale oggetto di necessario accertamento probatorio (ovviamente pure presuntivo) – in ordine agli eventuali riconoscimenti patrimoniali in dipendenza della crisi familiare, in modo, oltretutto, da fugare possibili sospetti di creazione di “rendite di posizione” e di “ingiustificati arricchimenti”.

Ed è da sottolineare come le Sezioni Unite, seguendo una traiettoria sostanzialmente non dissimile da quella – cui si è dianzi accennato – tendente ad armonizzare i principi di “autoresponsabilità” e “solidarietà”, abbiano anche inteso, in relazione alla funzione dell’assegno, superare la tradizionale contrapposizione tra quella “assistenziale” – almeno al di là delle ipotesi residuali in cui l’assegno sia destinato assumere, secondo le Sezioni Unite, un “profilo strettamente assistenziale” – e quella “perequativo-compensativa”, integrandole tra loro. L’allusione – nel finale “principio di diritto” – ad “una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa”, infatti, è da leggere alla luce dell’attribuzione alla “funzione assistenziale” proprio di “un contenuto perequativo-compensativo che discende direttamente dalla declinazione costituzionale del principio di solidarietà”, parlandosi, allora, anche di un “criterio assistenziale-compensativo”, in cui, una volta definitivamente accantonata qualsiasi distinzione tra “il criterio attributivo e quello determinativo” dell’assegno, “l’elemento contributivo-compensativo si coniuga senza difficoltà a quello assistenziale perché entrambi sono finalizzati a rista bilire una situazione di equilibrio che con lo scioglimento del vincolo era venuta a mancare”, dovendo “l’adeguatezza dei mezzi” disponibili essere valutata “in relazione a quel che si è contribuito a realizzare in funzione della vita familiare”.

Ricostruzione, questa, peraltro, persistentemente travisata da quell’indirizzo della prima sezione della Cassazione – cui si è fatto cenno all’inizio – che, tenacemente insistendo nel temerario tentativo di porre su di una linea di continuità la ricostruzione delle Sezioni Unite e l’impostazione di Cass. n. 11504/2017, finisce col riferirsi – con malcelata nostalgia per la prospettiva esasperatamente assistenzialistica radicata nella concezione in chiave bifasica del meccanismo attributivo dell’assegno – ad una “imprescindibile finalità assistenziale dell’assegno”, con la quale (solo) “può concorrere, in determinati casi, quella compensativa” (Cass. n. 24935/2019) e ad un assegno che, nel rispondere, “anzitutto, ad un’esigenza assistenziale”, “in taluni casi … può rispondere, in tutto o in parte, ad una finalità compensativo-perequativa” (Cass. n. 24250/2021).

In ordine, poi, alla concreta realizzazione dell’accennata esigenza “perequativo-compensativa” e riequilibrativa, la quale finisce col rappresentare, nella prospettiva delle Sezioni Unite non meno che in quella delle ricordate proposte di riforma della materia dell’assegno divorzile, il punto di riferimento obbligato delle valutazioni finalizzate alla definizione degli assetti economici post-matrimoniali, pare opportuno richiamare quanto già dianzi ripetutamente sottolineato: trattarsi, cioè, di un obiettivo al cui perseguimento sono destinati a giocare, in un intimo intreccio che li rende interdipendenti, il concreto funzionamento, nei rapporti tra le parti, del regime patrimoniale nella fase fisiologica della convivenza e la regolamentazione dei rapporti economici in dipendenza della crisi coniugale.

In tale quadro, anche secondo quanto pare consentito argomentare alla luce delle precisazioni dell’ordinanza n. 21926/2019, l’esigenza in questione – ferma restando, ovviamente, quella necessaria sussistenza, in conseguenza del divorzio, di “uno squilibrio effettivo e di non modesta entità” tra le situazioni delle parti, solo in presenza del quale, evidentemente, può avere senso parlare di “funzione perequativa” – ben potrà considerarsi soddisfatta, ove il livello di “adeguatezza” della posizione economico-patrimoniale del coniuge economicamente più debole risulti già sufficientemente da lui conseguito al momento del divorzio.

Ciò, da una parte, attraverso il funzionamento – appunto in chiave riequilibrativa e perequativa – del regime patrimoniale governante l’economia coniugale (secondo una prospettiva di valorizzazione dell’operatività del prescelto regime patrimoniale di comunione, per cui v. l’ordinanza n. 11787/2021, che riprende, sul punto, quella n. 21228 del 2019) e, dall’altra, alla luce delle attribuzioni via via operate – evidentemente in caso di adozione di un regime patrimoniale coniugale inidoneo alla realizzazione dell’esigenza perequativa – durante il matrimonio dall’ex coniuge (di “interventi in corso di matrimonio dell’ex coniuge” parla significativamente l’accennata ordinanza n. 21926/2019), nonché, a maggior ragione, di quelle effettuate nel contesto degli accordi economici adottati in occasione della separazione personale. Anzi, a tale ultimo riguardo, è da ritenere che possano assumere rilevanza anche i benefici economici derivanti dal pregresso conseguimento di un assegno di separazione, il quale, ove (ed in quanto) riconosciuto in misura manifestamente superiore a quella necessaria ad assolvere – nell’ottica di un “mantenimento” commisurato al “tenore di vita coniugale” – una finalità (secondo quanto sottolineato sempre da Cass. n. 21926/2019) “strettamente legata al flusso ordinario delle spese” (pure nella più ampia consistenza ragionevolmente ipotizzabile), consentendo la formazione – in vista della “realizzazione dei propri obiettivi economico patrimoniali” – di un vero e proprio capitale, ben potrebbe finire con l’assumere la sostanza di una sorta di relativa “rateizzazione”.

Del resto, la giurisprudenza di merito non ha mancato tempestivamente già di muoversi con decisione in una simile prospettiva. Per limitarsi a richiami esemplificativi, significativo, così, risulta – se non la negazione – almeno un drastico ridimensionamento dell’importo dell’assegno di divorzio, una volta preso atto che “la perequazione delle risorse economiche è già in parte avvenuta con la divisione che le parti hanno fatto dei beni comuni, ed in particolare degli immobili in comunione legale e del denaro sul conto corrente cointestato” (App. Catania, 20 settembre 2018). Non meno interessante si presenta, nella medesima ottica, il rigetto della richiesta di un assegno di divorzio, alla luce della constatata vigenza, tra le parti, del regime di comunione dei beni e della valutazione degli accordi economico-patrimoniali adottati in sede di separazione personale consensuale, nel cui contesto viene valorizzato anche l’“impegno a carico dell’attore per il mantenimento della moglie”, reputato “molto rilevante” in considerazione dell’importo e della durata (Trib. Pavia, 23 luglio 2018).

7. – Alla luce degli itinerari esegetici prospettati dalla giurisprudenza più recente in tema di contribuzioni post-matrimoniali (e di relativa funzione), sembra imporsi la conseguente opportunità, da una parte, di un adeguamento dello strumentario a disposizione per governare – in una visione che intenda essere sensibile alle attuali dinamiche esistenziali – i profili economici della crisi familiare; dall’altra, di una eventuale rimeditazione – per assicurare armonia sistematica complessiva alla disciplina della materia – di alcune soluzioni legislative attualmente vigenti (della cui coerenza, del resto, non si era mancato di dubitare già in passato).

La sentenza delle Sezioni Unite del 2018, pare il caso di sottolineare, rappresenta forse il maggiore sforzo che l’interprete può profondere per leggere la disciplina vigente in quell’ottica “perequativo-compensativa” che la rende allineata al principio costituzionale di pari dignità dei coniugi. In effetti, nel nostro ordinamento, è al solo assegno di divorzio – cui appunto si riferisce la decisione in questione – che è affidato, dal punto di vista economico, il passaggio, per essi, dalla vita comune a quella definitivamente separata.

Non è difficile accorgersi, peraltro, come l’assegno di divorzio, nella sua configurazione periodica, risulti, per sua stessa natura, comunque strumento che mal si presta a svolgere in maniera pienamente soddisfacente una funzione “perequativo-compensativa” e partecipativa realmente rispettosa della uguale dignità e libertà di ambedue i coniugi. Esso, infatti, finisce col perpetuare a tempo tendenzialmente indefinito – e di qui, alla luce delle esperienze degli altri ordinamenti, la diffusa istanza tendente, almeno, a prevedere una eventuale predeterminabilità della relativa durata, ovviamente nei casi in cui ciò possa comunque valere a soddisfare le esigenze cui risulta finalizzata l’attribuzione dell’assegno – situazioni relazionali e di dipendenza, la cui intollerabilità è sicuramente destinata ad accentuarsi quale riflesso dei successivi possibili percorsi di vita affettivofamiliare degli interessati (in attuazione di quello che è stato reputato, per utilizzare le parole di Cass. n. 6289/2014, quale “diritto alla costituzione di una nuova famiglia”, dopo il venir meno della prima). Ma, allo stato, l’art. 5, comma 8, l. div., con l’affidare solo alla concorde volontà delle parti il ricorso a soluzioni (definitive) una tantum, fa, appunto, dell’assegno periodico l’unico strumento disponibile in via generale per regolare i rapporti economici tra gli interessati.

La via seguita nel contesto delle riforme che, altrove, hanno investito la problematica qui in discussione si presenta sostanzialmente univoca. Spesso, al riguardo, viene richiamato il modello – invero diffuso nel contesto dell’attuale diritto europeo – francese, in cui la prestation compensatoire, proprio in vista della funzione che è programmaticamente chiamata a svolgere, assume, appunto, “la forma di un capitale”, secondo modalità stabilite dal giudice (che possono consistere anche nell’attribuzione di beni in proprietà o di altri diritti reali), eventualmente rateizzabile, solo “a titolo eccezionale” potendosi, “con decisione specificamente motivata”, fissarla “sotto forma di rendita vitalizia”, indicizzata e, alla morte dell’ex coniuge debitore, comunque sostituita (non diversamente che l’eventuale saldo del capitale rateizzato), a carico dell’eredità, “da un capitale immediatamente esigibile” (artt. 270 ss. code civil).

La ragionevole e condivisibile preferenza per un simile modello di sistemazione economica in via giudiziale – almeno ove consentita dalle circostanze e sicuramente resa suscettibile di più larga accessibilità attraverso l’opportuna previsione della possibilità di una eventuale rateizzazione della prestazione riequilibrativa – tende ovunque ad accompagnarsi, inoltre, ad una accentuata preferenza per quelle soluzioni concordate, per le quali anche il nostro legislatore, del resto, ha dimostrato una crescente sensibilità. Ed è facile comprendere come l’eventuale riconoscimento al giudice della possibilità di ricorrervi possa valere a rappresentare, a ben vedere, un forte, se non decisivo, stimolo per gli interessati a pervenirvi – sempre, ovviamente, come dianzi sottolineato, nel reciproco rispetto di quei “diritti inderogabili”, funzionalmente destinati ad assicurare la pari dignità dei coniugi anche nel momento del definitivo venir meno del rapporto matrimoniale – già in via volontaria (e, addirittura, come ormai consentito anche nel nostro ordinamento, in via extragiudiziale).

Si tratta di un obiettivo – almeno ove, addirittura, non si reputino già ora fondati, ai fini del relativo giudizio di legittimità costituzionale, i dubbi circa la ragionevolezza dell’attuale soluzione normativa, a fronte di quello che, ormai, rappresenta il “diritto vivente” in materia – perseguibile in via legislativa e, appunto, una eventuale riforma della disciplina in tema di riflessi patrimoniali dello scioglimento del matrimonio dovrebbe, di conseguenza, abbandonando la troppo ristretta impostazione attuale della regolamentazione, allargare i propri orizzonti al di là dell’assegno nella sua configurazione periodica.

Pare anche il caso (almeno) di accennare come una coerente costruzione sistematica della materia, una volta assodata la funzione “compensativa e perequativa” che sono chiamate a realizzare – in dipendenza del carente funzionamento, nella medesima prospettiva, del regime patrimoniale coniugale – le attribuzioni connesse al venir meno della comunità di vita familiare, dovrebbe condurre, per coerenza, a ripensare pure una serie di soluzioni attualmente sancite dalla legge sul divorzio.

Ci si riferisce, in particolare, alla previsione dell’art. 5, comma 10, l. div., secondo cui “l’obbligo di corresponsione dell’assegno cessa se il coniuge, al quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze”.

Che, al riguardo, i nodi siano inevitabilmente destinati a venire al pettine, sembra dimostrarlo l’ordinanza interlocutoria n. 28995 del 2020. In essa risulta rimessa motivatamente in discussione, in effetti, la conclusione nel senso della perdita (definitiva) del diritto all’assegno da parte dell’ex coniuge (anche) in caso di instaurazione di una “stabile convivenza” (secondo l’indirizzo consolidatosi in giurisprudenza a partire da Cass. n. 6855/2015 ed estensivamente precisato, di recente, dall’ordinanza n. 22604/2020). Ci si è chiesti, cioè, se la perdita “automatica” di ogni diritto da parte “dell’ex coniuge sperequato nella posizione economica” sia, in tal caso, compatibile con la funzione ora riconosciuta all’assegno di divorzio, alludendo all’eventuale praticabilità di “altre scelte interpretative che, guidate dalla obiettiva valorizzazione del contributo dato dall’avente diritto al patrimonio della famiglia e dell’alto coniuge, sostengano dell’assegno divorzile, negli effetti compensativi suoi propri, la perdurante affermazione”.

In proposito, non può sfuggire che, se l’esigenza prospettata dall’ordinanza si presenta realmente fondata, lo è perché, risolvendosi l’indirizzo inaugurato da Cass. n. 6855 del 2015, a ben vedere, in un ampliamento – in via esegetica – della portata operativa dell’art. 5, comma 10, essa finisce col mettere a nudo l’incompatibilità, in linea di principio, della regola contenuta in tale disposizione – in quanto radicata nella (ormai) sconfessata ottica esclusivamente assistenziale dell’assegno divorzile – con la ricostruzione funzionale ora offerta dalle Sezioni Unite in tema di contribuzioni postmatrimoniali. Il discorso, quindi, proprio nella prospettiva ricostruttiva delineata da Cass. n. 28995/2020 (richiamata pure dalla successiva ordinanza n. 9273/2021), per coerenza, dovrebbe – andando al di là della fattispecie presa specificamente in considerazione, concernente gli effetti della “convivenza” dell’ex coniuge sul suo diritto all’assegno e, quindi, effettivamente ancora risolvibile sul solo piano esegetico, trattandosi di incidere su di una soluzione avente tale carattere, almeno fino a quando la “convivenza” non venga espressamente inclusa tra le cause di cessazione dell’assegno, secondo quanto (e non a torto alla luce della svolta dell’ordinamento con la l. n. 76/2016) prevede la dianzi accennata iniziativa di riforma legislativa della materia – coinvolgere una incisiva ridefinizione normativa della portata operativa della regola di cui all’attuale art. 5, comma 10.

Non si può, in effetti, fare a meno di riflettere sulla scarsa coerenza sistematica di una simile disposizione con una impostazione del diritto a contribuzioni post-matrimoniali che intenda essere pienamente attuativa dell’istanza perequativo-riequilibrativa e compensativa, a tutela della parità delle parti, pure – e forse soprattutto – dal punto di vista del necessario superamento dei condizionamenti eventualmente atti a pregiudicare la libertà di decisione di ciascuna delle parti in ordine alle proprie legittime scelte di vita familiare successive al divorzio. Significativamente, del resto, già in relazione alla corrispondente previsione dell’originario testo della legge sul divorzio, non si mancò di ritenerla inopportuna, se non addirittura costituzionalmente illegittima, sia, appunto, per l’accennato condizionamento della libertà del beneficiario dell’assegno (evidentemente destinata a risultare accentuata dall’estensione alla situazione di “convivenza” della relativa portata estintiva), sia per l’evidente disparità di trattamento tra chi sia stato soddisfatto una tantum e chi, invece, veda soddisfatte le proprie aspettative economiche (solo) attraverso il riconoscimento di un assegno periodico.

Una diversa soluzione, rispetto a quella attuale, comportante una perdita, per così dire, “secca”, da parte del beneficiario, della contribuzione post-matrimoniale erogata in forma periodica, dovrebbe, quindi, a maggior ragione imporsi ove, in futuro, s’intendesse normativamente contemplare – secondo quanto dianzi accennato – la corresponsione una tantum quale forma funzionalmente elettiva delle attribuzioni in sede di definizione degli assetti economici post-matrimoniali. Ma anche ove non s’intendesse giungere legislativamente ad un simile approdo, la soluzione normativa attuale – la quale pare suscitare addirittura dubbi sul piano della sua attuale legittimità costituzionale, per l’irragionevolezza della relativa portata a fronte del “diritto vivente” in tema di funzione delle contribuzioni post-matrimoniali – sembra presentarsi comunque meritevole di ripensamento.

In effetti, l’unica via sistematicamente coerente per garantire adeguatamente – appunto nell’ottica perequativo-partecipativa e compensativa ora delineata dalle Sezioni Unite – la realizzazione delle “legittime aspettative” economiche acquisite attraverso la “fattiva” partecipazione al pregresso svolgimento del rapporto di vita familiare sembra forse quella di consentire, in caso di estinzione del diritto all’assegno (periodico) in applicazione dell’art. 5, comma 10, che l’ex coniuge, già beneficiario, possa conseguire, da parte dell’altro ex coniuge, una prestazione equitativamente determinata, con l’eventuale possibilità, per il giudice, di fissarne le modalità più opportune di corresponsione (tra cui, ovviamente, la rateizzazione).

Pare il caso di accennare, inoltre, come la coerente affermazione di una concezione perequativo-riequilibrativa e compensativa delle contribuzioni post-matrimoniali, col definitivo abbandono dell’impostazione in chiave meramente assistenziale in senso stretto (e non, quindi, nel senso ora attribuito dalle Sezioni Unite al criterio assistenziale, nella sua “coniugazione” con quello contributivo-compensativo), dovrebbe probabilmente indurre anche a rimeditare – soprattutto nel contesto di una eventualmente prevista normalità dell’attribuzione una tantum – la soluzione adottata, appunto in chiave marcatamente assistenzialistica (come emerge dalla subordinazione di ogni diritto dell’ex coniuge interessato ad un suo “stato di bisogno”), con l’art. 9-bis, introdotto, nel 1978, a fronte di una notevole divergenza di vedute – alla luce della disciplina
originaria dell’assegno – relativamente al problema della sorte delle contribuzioni post-matrimoniali in caso di morte dell’obbligato, ovviamente in quanto riconosciute in forma periodica.

E, pure in proposito, la riflessione in ordine alla preferibilità di una eventuale connotazione – sia pure con opportuna attenzione alla peculiarità della fattispecie – di tipo più marcatamente successorio dell’art. 9-bis non potrebbe che ispirarsi, per la relativa coerenza sistematica, al modello di disciplina apprestato, in Francia (che, comunque, non manca di trovare articolato riscontro anche in altri ordinamenti europei), con riguardo, appunto, all’ipotesi di (pur eccezionale) attribuzione post-matrimoniale in forma periodica: soluzione tendente a prevedere (art. 280 code civil) la sostituzione della prestazione periodica stessa con “un capitale immediatamente esigibile a carico dell’eredità” (salva la possibilità, per gli eredi, di optare, con opportune cautele, per la continuazione della corresponsione in forma periodica: art. 280-1).

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