Si segnala l’ordinanza n. 24731/2024 della Corte di Cassazione in tema di diritto al mantenimento del figlio maggiorenne.
La vicenda sottoposta al vaglio del Supremo Collegio trae origine dal provvedimento con cui il Tribunale di Pordenone aveva revocato l’obbligo di Tizio di contribuire al mantenimento della figlia maggiorenne Tizietta sul presupposto che quest’ultima fosse economicamente autosufficiente. La Corte d’Appello di Trieste, all’esito del reclamo proposto dalla madre Sempronia, riformava la decisione, ritenendo che gli elementi addotti da Tizio (età della figlia, inizio del percorso universitario non subito dopo il termine delle scuole superiori, svolgimento di lavori precari e saltuari) non fossero idonei a dimostrare l’autosufficienza economica di Tizietta. Tizio impugnava il decreto avanti la Suprema Corte, in particolare lamentando che la Corte territoriale era incorsa nella violazione / erronea applicazione dell’art. 2967 c.c., avendo fondato la decisione sul rilievo che egli non aveva fornito adeguata prova della circostanza che la figlia maggiorenne avesse raggiunto l’indipendenza economica e, dunque, che non avesse più diritto al mantenimento.
La Suprema Corte accoglie il ricorso, osservando che “è senza dubbio errata l’affermazione da cui muove la corte di merito, laddove ha sostenuto che l’onere della prova dell’autosufficienza dei figli spetta al genitore” gravato del mantenimento. Al riguardo, i Giudici di legittimità hanno richiamato il consolidato orientamento per cui l’onere della prova in ordine alle condizioni che fondano il diritto al mantenimento è a carico del soggetto richiedente, che dovrà dimostrare che il figlio ha curato, con adeguato impegno, la propria preparazione professionale e/o tecnica e ha altresì ricercato attivamente un’occupazione lavorativa.
La Suprema Corte si è quindi soffermata sul “contenuto” della prova da fornirsi da parte del richiedente, precisando che esso si atteggia diversamente a seconda che il figlio sia neomaggiorenne ovvero possa considerarsi ‘adulto’.
Nella prima ipotesi, sarà sufficiente dimostrare che il figlio sta proseguendo nell’ordinario percorso di studi superiori, universitari o di specializzazione.
Per contro, nell’ipotesi di ‘figlio adulto’, la prova delle circostanze che hanno determinato e giustificano il mancato conseguimento di una collocazione lavorativa e, dunque, dell’autonomia reddituale, sarà più rigorosa, posto che, in forza del principio di autoresponsabilità, si presume che con il raggiungimento dell’età adulta ciascun soggetto sia in grado di provvedere a sé. Dovrà, quindi, valutarsi in concreto, tenuto conto delle scelte di vita fino a quel momento compiute e dell’impegno profuso nel conseguimento di una qualificazione professionale e, poi, di una collocazione lavorativa, se il figlio possa ancora pretendere di essere mantenuto.
Sulla base delle considerazioni sopra brevemente esposte, la Suprema Corte ha altresì precisato che “il figlio che abbia ampiamente superato la maggiore età e non abbia reperito, pur spendendo il conseguito titolo professionale sul mercato del lavoro, un’occupazione lavorativa stabile o che, comunque, lo remuneri in misura tale da renderlo economicamente autosufficiente, non può soddisfare l’esigenza ad una vita dignitosa, alla cui realizzazione ogni giovane adulto deve aspirare, mediante l’attuazione dell’obbligo di mantenimento del genitore, bensì attraverso i diversi strumenti di ausilio, ormai di dimensione sociale, che sono finalizzati ad assicurare sostegno al reddito, ferma restando l’obbligazione alimentare da azionarsi nell’ambito familiare, per supplire ad ogni più essenziale esigenza di vita dell’individuo bisognoso”.
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