Con sentenza n. 8770/2020, pubblicata in data 12/5/2020, le Sezioni Unite della Suprema Corte si sono pronunciate su rilevanti questioni in materia di strumenti finanziari derivati. Seppur la fattispecie concreta si riferisca a contratti stipulati da un Comune, la sentenza enuncia principi di portata generale, sicuramente destinati ad avere inevitabili ripercussioni non solo sul fronte dei contenziosi tra Istituti di Credito ed Enti locali, ma anche nei giudizi promossi da imprese e privati. 

I- Preliminarmente, deve osservarsi che le Sezioni Unite hanno deciso sull’impugnazione avverso la sentenza n. 734/2014 della Corte d’Appello di Bologna, che aveva dichiarato la nullità e pronunciato l’annullamento dei contratti derivati stipulati dal Comune di Cattolica in base all’assunto per cui l’up-front iniziale costituisse una forma di indebitamento (attale o potenziale) per l’Ente e, dunque, la stipulazione degli stessi avrebbe dovuto essere preceduta dalla specifica deliberazione consiliare imposta dalle previsioni del TUEL; la Corte territoriale aveva ritenuto fondato il rilievo del Comune per cui le delibere di accensione degli swaps avrebbero dovuto essere adottate dal Consiglio Comunale ex art. 42, comma 2, lett. i) TUEL poiché prevedevano spese impegnative di più bilanci successivi. Sotto altro profilo, la Corte bolognese aveva accolto l’impugnazione dell’Ente locale in relazione alla violazione dell’art. 119, ultimo comma, Cost., art. 30, comma 15, L. 289/2002 e art. 202 TUEL poiché dalle risultanze documentali di causa emergeva come l’indebitamento insito, implicito e prevedibile nei contratti in questione non fosse stato contratto per “finanziare spese di investimento”, come imposto dalle norme testé citate.

Sotto ulteriore profilo, la Corte d’Appello di Bologna aveva dichiarato la nullità degli swaps per difetto di causa concreta in quanto dai relativi contratti e/o dagli atti amministrativi presupposti non risultava alcun specifico riferimento ai contratti di mutuo in relazione ai quali i derivati erano stati stipulati; del pari, si legge nella parte motiva della sentenza, non poteva ritenersi che l’oggetto dei predetti contratti rispondesse ai requisiti previsti dall’art. 1346 c.c. La Corte territoriale ha, dunque, statuito che: “il contratto inerente il derivato deve invece contenere tutti i requisiti essenziali per farne emergere la causa in concreto esercitata; deve inoltre avere un oggetto determinato o determinabile, ossia deve avere, per integrare entrambi i requisiti, una percepibile e misurabile correlazione tra le (sole) menzionate ‘posizioni creditorie e debitorie’ e l’importo di riferimento – il nozionale – sottostante, nonché tra i tassi praticati nelle dette posizioni e il ‘il tasso parametro” che le parti reciprocamente si assegnano per le liquidazioni periodiche”.

Inoltre, nella sentenza in esame, ancorché in termini sommari e apparentemente “incidentali”, veniva trattato il tema del mark to market; in particolare, la Corte d’Appello di Bologna aveva rilevato che “in nessuno dei contratti appare la determinazione del valore attuale degli stessi al momento della stipulazione (cd. mark to market) che una attenta e condivisibile giurisprudenza di merito (cfr. App. Milano 18.9.2013 …) ritiene elemento essenziale dello stesso, ed integrativo della sua causa tipica (un’alea razionale e quindi misurabile), da esplicitare necessariamente e indipendentemente dalla finalità di copertura (hedging) o speculativa tout court, così come i costi impliciti e i criteri con cui determinare la penalità in caso di recesso (qui il costo di sostituzione era determinato sulla base delle ‘condizioni praticate da controparti di mercato” circostanza rilevata dal Comune in primo grado, ma non fatta oggetto di motivi di appello”. 

II – A seguito del ricorso promosso dalla Banca soccombente, la Prima Sezione della Suprema Corte ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite con riguardo, secondo quanto si legge nell’ordinanza interlocutoria n. 493/2019, alle seguenti questioni: “- se lo swap, in particolare quello che prevedeva un up-front – e non sia disciplinato ratione temporis dal D.L. m. 112/2008, convertito con L. 133/2008 – costituisca per l’ente locale un’operazione che generi un indebitamento per finanziare spese diverse da quelle di investimento, a norma dell’art. 30, comma 15, L. n. 289/2002; – se la stipula del relativo contratto rientri nella competenza riservata al Consiglio comunale implicando una delibera di spesa che impegni bilanci per gli esercizi successivi, giusta l’art. 42, comma 2, lett. i) TUEL”.

Oltre che i profili di cui sopra, i motivi di impugnazione della Banca ricorrente avevano ad oggetto: 

– la contestazione della sentenza d’appello per aver dichiarato la nullità dei contratti derivati per difetto di causa concreta, in ragione della mancata indicazione specifica dei rapporti di mutuo sottostanti alla stipulazione degli swaps (quarto motivo di ricorso);

– la censura della statuizione per cui l’esplicitazione del valore attuale dei derivati al momento della stipulazione (mark to market) costituirebbe elemento essenziale del contratto a pena di nullità (quinto motivo di ricorso). 

III – Le Sezioni Unite, investite della decisione su tutti i motivi di ricorso, hanno in primo luogo trattato in generale i contratti derivati, indipendentemente dalla loro stipulazione con Enti pubblici, giungendo così ad esaminare e decidere in primis il terzo, quarto e, soprattutto, il quinto motivo di ricorso, relativo al tema dell’esplicita indicazione del mark to market nel contratto, sul quale le Sezioni Unite sono andate oltre il fugace inciso della Corte d’Appello di Bologna.

In particolare, la sentenza tratta dapprima la natura aleatoria di tali contratti e dei limiti entro i quali l’ordinamento ne ammette la meritevolezza – e quindi la validità – sotto il profilo causale. Al riguardo, le Sezioni Unite richiamano il principio della necessaria sussistenza di alea “razionale”, intesa come “misurabile”, in quanto funzionale alla finalità di “gestione del rischio” sottesa a tali strumenti finanziari; “razionalità” ravvisabile, in concreto, laddove siano esplicitati – e condivisi in accordo con l’investitore, sia esso privato o Ente pubblico – gli elementi che consentono di conoscere la “misura dell’alea, calcolata secondo criteri scientificamente riconosciuti e oggettivamente condivisi”, tramite l’esplicitazione: a) dei costi impliciti; b) del mark to market; c) dei cd. “scenari probabilistici” (cfr. punto 6.2, sentenza).

Sempre in una prospettiva generale, riferita all’Ente pubblico come all’investitore privato, il principio viene poi ripreso con specifico riguardo alla “determinatezza (o determinabilità) dell’oggetto del contratto”, affermandosi che: “9.1. (Omissis) la validità dell’accordo va verificata in presenza di un negozio (tra intermediario ed ente pubblico o investitore) che indichi (o meno) la misura dell’alea, calcolata secondo criteri riconosciuti ed oggettivamente condivisi, perché il legislatore autorizza solo questo genere di scommesse sul presupposto dell’utilità sociale di quelle razionali, intese come specie evoluta delle scommesse di pura abilità. 9.2. E tale accordo sulla misurabilità/determinazione dell’oggetto non deve limitarsi al criterio del mark to market, ma investire, altresì, gli scenari probabilistici, poiché il primo è semplicemente un numero che comunica poco in ordine alla consistenza dell’alea. Esso deve concernere la misura qualitative e quantitativa dell’alea e, dunque, la stessa misura dei costi, pur se impliciti.  Infatti, l’importanza dei menzionati parametri di calcolo consegue alla circostanza che tramite essi si può realizzare la funzione di gestione del rischio finanziario, con la particolarità che il parametro scelto assume alla scadenza l’effetto di una molteplicità di variabili … (omissis)”.

La Suprema Corte, confermando l’approccio del Giudice di merito e respingendo i motivi di 3, 4 e 5, è giunta dunque ad “affermare la regula iuris, secondo la quale: in tema di contratti derivati, stipulati dai Comuni italiani sulla base della disciplina normativa vigente fino al 2013 (quando la legge n. 147 del 2013 ha escluso la possibilità di farvi ulteriore ricorso) e della distinzione tra i derivati di copertura e i derivati speculativi, in base al criterio del diverso grado di rischiosità di ciascuno di essi, pur potendo l’ente locale procedere alla stipula dei primi con qualificati intermediari finanziari nondimeno esso poteva utilmente ed efficacemente procedervi solo in presenza di una precisa misurabilità/determinazione dell’oggetto contrattuale, comprensiva sia del criterio del mark to market sia degli scenari probabilistici, sia dei cd. costi occulti, allo scopo di ridurre al minimo e di rendere consapevole l’ente di ogni aspetto di aleatorietà del rapporto, costituente una rilevante disarmonia nell’ambito delle regole relative alla contabilità pubblica, introduttiva di variabili non compatibili con la certezza degli impegni di spesa riportati in bilancio.”

IV – Come noto, le questioni esaminate dalle Sezioni Unite in relazione al “ruolo” e alla “funzione” del mark to marketsono state oggetto di un vivace dibattito giurisprudenziale negli ultimi anni.

In particolare, secondo un primo orientamento l’indicazione del mark to market e dei suoi criteri di calcolo, nonché dei costi impliciti, costituisce elemento essenziale del derivato rilevante ai fini della sua validità.

Dall’analisi di numerose pronunzie, emerge come i Tribunali e le Corti di merito si siano divise nel riferire la rilevanza di tali elementi: – al profilo causale (v. ex multis, Tribunale di Bari, sentenza n. 46/2019 per cui, affinché possa ritenersi soddisfatto il requisito della “razionalità dell’alea” occorre che i cd. “scenari probabilistici” siano definiti ex ante e che il contratto indichi il valore del derivato, i costi impliciti e le penali in caso di recesso; Tribunale di Bologna, sentenza n. 20990/2018, per cui l’enunciazione della formula di calcolo del mark to market fa parte degli essentialia ovvero “dei dati che consentono al cliente dell’istituto di credito di determinare e comprendere la reale natura del contratto, ovvero di apprezzare la sua natura di copertura, piuttosto che di speculazione pura, valutando, in definitiva, la consistenza dell’alea insita nel contratto”); – all’oggetto (v. ex multis, Tribunale di Milano, 16.6.2015, per cui ai fini della determinabilità dell’oggetto del contratto è necessario che nel regolamento contrattuale sia indicato il metodo di calcolo del mark to market); – o ancora addirittura del consenso. 

Per contro, secondo un altro orientamento, il mark to market non costituisce un elemento rilevante ex artt. 1325 e 1418 c.c. e, dunque, non ha una diretta incidenza sulla validità del contratto. Si segnala, in particolare, tra le più recenti, la sentenza n. 462/2020 del Tribunale di Milano ove è chiarito nei contratti di tipo swap l’oggetto sono i flussi di denaro e la causa è il loro scambio tra le parti secondo determinati parametri e alle scadenze fissate. Il MtM esprime, in un determinato momento, il valore del contratto in base alla previsione degli andamenti futuri dei flussi finanziari; corrisponde quindi al prezzo di mercato teorico che un terzo sarebbe disposto a sostenere per subentrare nel contratto. Esso viene in rilievo specie in caso di risoluzione anticipata dello swap, quale costo preteso dalla banca per tale estinzione. Non si tratta quindi di un costo necessariamente pagato dal cliente. Di conseguenza non può essere qualificato come essenziale, ai sensi degli artt. 1325 e 1418 c.c., un elemento che rileva solo eventualmente”. In senso conforme, anche la sentenza del Tribunale di Milano n. 10452/2019, che ha altresì rilevato che ai sensi dell’art. 2426, n. 11 bis, c.c. il valore del derivato (fair value) deve essere iscritto a bilancio e quindi ogni società deve essere in grado di calcolarlo. L’eventuale diversità di calcolo del MTM tra cliente e banca darebbe luogo ad una controversia su un aspetto non regolato in contratto e ciò non può certo comportare vizi genetici del negozio, quale è l’invocata nullità”.

V- Le Sezioni Unite, con la pronuncia qui in esame, aderiscono al primo orientamento e, in particolare, paiono recepire la tesi incentrata sulla rilevanza dei contenuti contrattuali sopra detti ai fini della determinazione dell’oggetto negoziale. 

Il che, a parere di chi scrive, non è condivisibile posto che il mark to market, che individua il valore del contratto ad una certa data (o meglio, il costo che una delle parti dovrebbe sostenere se volesse risolvere anticipatamente il contratto) non può qualificarsi quale elemento strutturale e tantomeno essenziale del contratto.

L’indicazione del mark to market, degli “scenari probabilistici”, come pure quella dei costi impliciti, potrebbe piuttosto essere ricondotta agli obblighi informativi – che peraltro la stessa sentenza richiama -, ma non all’oggetto o alla causa del contratto. In tal senso pare deporre quanto disposto dall’art. 32 del Regolamento Consob n. 16190/2007, a norma del quale l’intermediario deve comunicare (peraltro, solo al cliente al “dettaglio”) i costi e gli oneri relativi al servizio di investimento.

E proprio sotto tale profilo la sentenza non convince, laddove pare abbia semplicemente trasformato elementi di natura informativa nell’oggetto del contratto, forse spingendosi anche ad attribuire ad essi rilevanza sul piano causale: il che pare in contrasto con la sentenza delle stesse Sezioni Unite n. 26725/2007 e con la successiva giurisprudenza che vi ha aderito (cfr., ex multis, Cass. 18781/2017, che ha escluso che “un’eventuale difetto di informazione da parte dell’intermediario all’investitore sugli esatti termini di rischio assunto con i contratti possa determinare la nullità dei contrati stessi, non incidendo tale difetto sulla sua causa negoziale”). 

Proprio la rilevanza degli elementi in esame al fine della conoscenza dell’alea in capo all’investitore non può che condurre alla loro riconducibilità agli obblighi informativi, in contrasto con la conclusione espressa dalla sentenza; tanto più che, nella materia dei derivati, assume particolare rilievo il diverso contenuto dell’obbligo informativo nei confronti dell’operatore qualificato e professionale, soprattutto nella vigenza TUF e del Regolamento Consob 11522/98, a mente del quale l’intermediario nemmeno ha l’obbligo di valutare l’adeguatezza dell’investimento rispetto al profilo del cliente e, pertanto, a fortiori, è da escludere che egli debba comunicare gli “scenari probabilistici”.

VI – Siamo consapevoli che, a questo punto, gli argomenti di cui sopra difficilmente potranno essere accolti in sede giudiziale, essendo probabile che la giurisprudenza di merito, ad oggi non uniforme, si adegui alla statuizione delle Sezioni Unite; non può peraltro escludersi che un più corretto inquadramento nell’ambito degli obblighi informativi consenta di coniugare esigenze di giustizia sostanziale a tutela degli investitori non professionali con le responsabilità del contrarre dei soggetti che invece rientrino nella categoria degli investitori professionali.

Avv. Mirco Cilotti
Avv. Benedetta De Bellis

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