Ai sensi dell’art. 12 bis della legge sul divorzio (n. 898/1970), così come interpretato dalla giurisprudenza, il “coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonioha diritto a “una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro”, purché:

  • l’ex coniuge richiedente la quota sia titolare di un assegno di divorzio, in forza di sentenza passata in giudicato;
  • l’ex coniuge richiedente la quota non sia passato a nuove nozze;
  • l’indennità dell’altro (ex) coniuge venga a maturare al momento o dopo la proposizione della domanda di divorzio.

Tale disposizione è stata introdotta dal legislatore del 1987 per valorizzare la solidarietà economica che lega i coniugi durante il matrimonio, convergendo in essa sia profili assistenzialistici – evidenziati dal presupposto della spettanza dell’assegno divorzile – sia criteri di carattere compensativo, rapportati al contributo personale ed economico dato dall’ ex-coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune (cfr. Corte Cost., sent. 17-24.01.1991, n. 23; Cass., sent. 29.09.2005, n. 19046). Il diritto a una quota dell’indennità percepita dall’ex coniuge all’atto della cessazione del proprio rapporto di lavoro, pertanto, presuppone la sussistenza di tutti i requisiti indicati dal citato art. 12 bis, tra i quali – in particolare – la qualità di coniuge divorziato e la titolarità dell’assegno divorzile in capo al richiedente la quota di TFR, il cui ammontare, ai sensi del secondo comma del citato art. 12 bis, è “pari al 40% dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è conciso con il matrimonio”.

Conseguentemente:

I) se il trattamento è maturato in costanza di matrimonio, l’altro coniuge non è titolare di alcun diritto sull’indennità percepita dal beneficiario, il quale potrà quindi disporre liberamente di tale somma, eventualmente destinandola ai bisogni della famiglia;

II) se il trattamento è maturato nel corso del giudizio di separazione personale, il coniuge non potrà vantare alcun diritto sull’indennità percepita dal beneficiario; tale attribuzione reddituale, tuttavia, è suscettibile di incidere sulla capacità economica del beneficiario e il giudice potrà quindi stabilire – in presenza di tutti presupposti richiesti dall’art. 156 c.c. – l’obbligo di uno dei coniugi di contribuire al mantenimento dell’altro;

III) se il trattamento è maturato successivamente alla conclusione del giudizio di separazione personale, ma prima del deposito della domanda di divorzio, parimenti l’altro coniuge non potrà vantare alcun diritto sull’indennità percepita dal coniuge beneficiario; tale attribuzione, in quanto circostanza sopravvenuta e suscettibile di incidere sulla situazione economica del coniuge percipiente, potrà legittimare un’eventuale domanda di modifica delle condizioni stabilite in sede di separazione (cfr. art. 710 c.p.c.);

IV) qualora l’indennità di fine rapporto sia percepita dal coniuge beneficiario contestualmente o successivamente al deposito della domanda (singola o congiunta) di divorzio, l’art. 12 bis della legge n. 898/1970 riconosce all’altro coniuge il diritto alla quota dell’indennità, la quale potrà essere liquidata con la stessa sentenza che accerti il diritto all’assegno divorzile, oppure in un distinto, successivo procedimento. Come sancito dalla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, infatti, “la «ratio» dell’art. 12 bis è quella di correlare il diritto alla quota di indennità non ancora percepita dal coniuge al quale essa spetti al diritto all’assegno divorzile, il quale in astratto sorge, ove spettante, contestualmente alla domanda di divorzio, ancorché – di regola – esso venga costituito in concreto e divenga esigibile solo dal momento del passaggio in giudicato della sentenza che lo liquidi” (così Cass., sent. 06.06.2011, n. 12175).  Tale orientamento giurisprudenziale, peraltro, aveva già superato il vaglio di legittimità della Corte Costituzionale, che con ordinanza n. 463 del 2002 ha escluso l’incostituzionalità dell’interpretazione per cui il diritto ad una quota del TFR percepito dall’altro coniuge spetta solo qualora detta indennità sia maturata al momento della proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio o successivamente ad essa.

Alla luce di quanto sopra, pertanto, l’ex coniuge non passato a nuove nozze e titolare dell’assegno divorzile non ha diritto ad alcuna quota percentuale sull’indennità di fine rapporto che l’altro abbia percepito prima del deposito della domanda introduttiva del giudizio; e ciò anche se si tratta di anticipazioni sul TFR liquidate in costanza del rapporto di lavoro (ex art. 2120 c.c.). Con riferimento a tali anticipi, infatti, univoca è la risposta della giurisprudenza, secondo la quale “occorre avere riguardo a quanto percepito dopo l’instaurazione del giudizio divorzile, escludendosi, quindi, eventuali anticipazioni riscosse durante la convivenza matrimoniale o la separazione personale, essendo le stesse definitivamente entrate nell’esclusiva disponibilità dell’avente diritto” (Cass., ord. 29.10.2013, n. 24421).

Non altrettanto pacifica, invece, è la questione concernente eventuali anticipazioni sull’indennità di fine rapporto che siano maturate e percepite dall’ex coniuge dopo l’instaurazione del giudizio di divorzio. Ai fini della determinazione della quota di TFR spettante all’ex coniuge titolare di assegno divorzile, infatti, la sopracitata giurisprudenza di Cassazione parrebbe legittimare – implicitamente – il computo degli anticipi in busta paga percepiti dal coniuge lavoratore successivamente alla domanda di divorzio; per contro, il Tribunale di Milano – nel caso riguardante un marito che, cinque anni dopo il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, aveva percepito un consistente anticipo sul TFR, con conseguente sensibile riduzione dell’importo successivamente liquidatogli alla al momento della cessazione del rapporto lavorativo – ha escluso l’operatività del citato art. 12 bis, ritenendo che l’ex coniuge titolare dell’assegno divorzile non possa vantare alcun diritto sulle indennità percepite dall’altro in costanza di rapporto di lavoro, anche se successive al giudizio di divorzio (cfr. Tribunale di Milano, Sez. IX, sent. 29.01.2020). Ciò, sulla base di tre argomenti:

– il primo si fonda sul “chiaro tenore letterale” dell’art. 12 bis, che “non consente di effettuare interpretazioni estensive” e “chiarisce che il coniuge divorziato non passato a nuove nozze e titolare di assegno ha diritto ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto «percepita  dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro»”, cosicché “tutto ciò che sia stato percepito anteriormente alla cessazione del rapporto di lavoro non entra nel calcolo, non rilevando, quindi, se gli anticipi siano intervenuti precedentemente o successivamente alla sentenza di divorzio”; 

– il secondo, di ordine teleologico, si fonda sul rilievo che l’art. 2120, comma 6, c.c. ammette il lavoratore a richiedere anticipazioni sul TFR già maturato soltanto a condizione che questi importi vengano destinati al conseguimento di precise finalità “ritenute meritevoli dall’ordinamento giuridico” e che “verrebbero frustate qualora su dette somme potesse essere fatto valere il diritto del coniuge divorziato percettore di assegno”, in quanto “il lavoratore pur già divorziato, ma ancora dipendente, sarebbe impossibilitato a destinare l’intera somma ottenuta dal datore di lavoro alla finalità per la quale ha potuto chiederla ed ottenerla secondo le norme di legge, perché dovrebbe, prudenzialmente, accantonarne una parte (tra l’altro in quel momento non quantificabile) a favore dell’ex coniuge che,  cessato, magari dopo anni, il rapporto di lavoro, decidesse di azionare il diritto ex art. 12 bis legge 898/70”;

– il terzo, che muove da considerazioni di ordine sistematico, evidenzia come “si creerebbe una situazione di indebita disparità tra il coniuge coniugato, che potrebbe godere appieno di quelle somme anche qualora fosse in comunione dei beni, cadendo esse solo nella comunione de residuo, rispetto al coniuge divorziato”, ritenendo altresì non condivisibile l’interpretazione – volta a scongiurare tale differenziazione di trattamento – che propone di “distinguere tra quegli anticipi riscossi dal coniuge divorziato indirizzati ad esigenze latu sensu della famiglia (si pensi alla casa comprata  per il figlio della coppia) da quelli dai quali abbia tratto vantaggio solo il lavoratore, per limitare  il diritto  dell’ex coniuge solo sugli ultimi”. Secondo il Tribunale di Milano, infatti, l’adesione a tale opzione interpretativa comporterebbe l’introduzione di un “sistema di valutazione discrezionale” suscettibile di vanificare la finalità perseguita dal legislatore del 1987, che era quella di attribuire rilievo alla “solidarietà economica che si instaura tra i coniugi durante la convivenza” facendo ricorso a “un meccanismo automatico di determinazione che consentisse certezza e rapidità nell’attribuzione e impedisse il nascere della conflittualità che sarebbe potuta derivare da un sistema di valutazione discrezionale”.

Fermo restando – conclude il Tribunale Milano – che non può certo escludersi “il diritto dell’ex coniuge di impugnare quella anticipazione che, successiva al divorzio,  sia stata  richiesta  in frode alle ragioni del  creditore”, il quale potrà comunque “chiedere che venga accertata l’indebita distrazione di parte del TFR” e quindi “rientrare nelle somme sulle quali operare il calcolo  del 40% previsto dalla legge”, a tal fine “allegando la volontà fraudolenta del debitore, eventualmente colluso con il datore di lavoro”.

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