Mezzo secolo fa, pochi mesi prima dell’approvazione della legge Fortuna-Baslini, fu pubblicato il bel libro di Paolo Ungari, Il diritto di famiglia in Italia. Dalle Costituzioni “giacobine” al Codice civile del 1942 (1) che, per la prima volta, tracciò la storia del moderno diritto di famiglia in Italia. Visto oggi, in retrospettiva, quel libro appare molto più di un compendio storico su una branca del diritto all’epoca tutto sommato marginale, poiché l’Autore, cogliendo evidentemente lo spirito dei tempi, offrì un importante strumento di riflessione, utile per capire ciò che sarebbe di lì a poco accaduto: una vera e propria rivoluzione stava infatti per investire la disciplina giuridica della famiglia, sino ad allora rimasta – nono- stante le intervenute disposizioni costituzionali – nei fatti pressoché ferma alla codificazione del 1942.
La legge sul divorzio, di cui Famiglia e Diritto celebra un importante compleanno, irruppe in un contesto governato da principi addirittura risalenti al codice unitario del 1865 che, salvo l’intervenuto Concordato Lateranense, non erano stati modificati significativamente dal Libro I del Codice Civile, entrato in vigore il 1° luglio del 1939 (2). Il nuovo codice aveva mantenuto tendenzialmente inalterate la natura e la struttura giuridica dei rapporti interni alla famiglia, caratterizzati dallo squilibrio di diritti e di poteri tra marito e moglie, soggetta alla potestà maritale, non solo tra di loro ma anche in relazione ai figli, che rimanevano sottoposti alla potestà esercitata dal padre (3). Su tutto e nonostante già subito dopo la codificazione unitaria si fossero avvicendati nume- rosi progetti per l’introduzione del divorzio (4) – il codice confermava l’indissolubilità del matrimonio, a presidio della stabilità della famiglia che su di esso necessariamente si fondava. Coerentemente, in quel codice lo stato dei figli legittimi, tali se concepiti in costanza di matrimonio, era l’unico propriamente familiare e ricompreso nella rete dei rapporti di parentela; ai figli illegittimi, infatti, la legge attribuiva tutela nei confronti del solo genitore che avesse effettuato il riconoscimento; per i figli adulterini e incestuosi il riconoscimento era tendenzialmente vietato, cosicché essi restavano privi di stato giuridico (5).
Come ricordato, nel 1948 era entrata in vigore la Costituzione, che, specie con riguardo all’eguaglianza dei coniugi e alla parità dei figli, enuncia principi lontani da quelli del Codice Civile del 1942; ma, all’epoca dottrina e giurisprudenza, certamente condizionate dal costume che era sostanzialmente conforme al modello tradotto sul piano legale dal Codice, tendevano a negare il significato innovativo delle regole costituzionali, dando rilievo piuttosto che ai principi l’eguaglianza fra coniugi e la pari dignità della filiazione alle limitazioni ivi previste a tutela dell’unità della famiglia legittima (6).
Con riguardo al divorzio è interessante ricordare che in sede di Assemblea costituente era stata data ampia rilevanza alla questione dell’indissolubilità del vin- colo coniugale, di cui, per contro, non vi è menzione espressa nel testo della Costituzione. Su questo punto si manifestarono contrasti molto più profondi rispetto a quelli provocati dalla enunciazione del principio della eguaglianza giuridica e morale tra coniugi. L’indissolubilità come, vent’anni dopo, la tormentata introduzione del divorzio confermò rappresentava uno di quei temi sui quali non c’era possibilità di compromesso. Le accese discussioni si conclusero infatti con una votazione che vide prevalere con una maggioranza di soli tre voti (194 rispetto a 191) l’opinione contraria alla costituzionalizzazione dell’indissolubilità (7). Deve peraltro ricordarsi che, secondo autorevoli giuristi, la vigenza di detto prin- cipio si sarebbe comunque dovuta desumere in forza della c.d. costituzionalizzazione del Concordato tra l’Italia e la Santa Sede (art. 7 Cost.) (8). Dopo l’approvazione della L. n. 898/1970, simili considerazioni condussero parte della dottrina a dubitare della sua legittimità, peraltro ripetutamente affermata dalla Corte costituzionale (9).
Tornando al 1970, alcuni segnali di cambiamento si erano in verità manifestati: basti pensare alla Legge sulla adozione (1967), che poneva in primo piano l’interesse del fanciullo in stato di abbandono rispetto a quello della famiglia legittima di cui eventualmente fosse membro; oppure, alle sentenze della Corte costituzionale che avevano depenalizzato l’adulte- rio (10). Da più parti si invocava una generale riforma del diritto di famiglia, ma erano molto forti le resistenze ad abbandonare il modello tradizionale. Ungari titola un capitolo del suo libro Mezzo secolo senza riforme, riferendosi agli anni che vanno dalla promulgazione del Codice unitario al 1919, in cui fu abolita l’autorizzazione maritale; tutto all’opposto, il cinquantennio che celebriamo, successivo di circa un secolo a quello cui egli si riferiva, come ben sappiamo è stato colmo di riforme.
Queste note intendono offrire alcuni spunti di rifles- sione circa gli effetti che la L. n. 898/1970, confermata dal Referendum del 12 maggio 1974 (11), ha prodotto sull’evoluzione del diritto di famiglia del trascorso cinquantennio. Invero la legge, oltre ad aver fortemente inciso nella conformazione della famiglia e, conseguentemente, nella struttura della società italiana, ha inaugurato una stagione di riforme che si protrae fino ai giorni nostri. La sua portata innovativa si è sviluppata nel tempo su una pluralità di piani: in primis ha modificato il rapporto tra persona e comunità familiare, attribuendo primario rilievo alla libertà individuale di recidere il vin- colo matrimoniale e dar vita ad un’altra famiglia. Ne è risultata così modificata la stessa morfologia della struttura familiare, deprivata del suo tradizionale pilastro, cioè l’indissolubilità del matrimonio: il matrimonio risolubile che reca la proprietà di essere sciolto e seguito da altro vincolo – è infatti tendenzialmente altro rispetto al matrimonio indissolubile, destinato a durare quanto la vita degli sposi (12). Si consideri, inoltre, che la riacquisizione della libertà di stato e la possibilità di più matrimoni – non conse- guenti alla vedovanza – nella vita della persona, o di convivenze, diventate lecite dopo lo scioglimento del vincolo, ha favorito la formazione e il riconoscimento giuridico di nuovi modelli familiari.
L’introduzione del divorzio ha altresì contribuito significativamente a promuovere l’avvio di un pro- gressivo percorso di “emancipazione” del diritto di famiglia, che fino ad allora non godeva di piena autonomia dal punto di vista scientifico e didattico: questa stessa Rivista ne costituisce evidente testimo- nianza. Infine, con l’avvento della mobilità della vita matrimoniale recata dal divorzio, la materia familiare abolita l’autorizzazione maritale; tutto all’opposto, il cinquantennio che celebriamo, successivo di circa un secolo a quello cui egli si riferiva, come ben sappiamo è stato colmo di riforme.
Queste note intendono offrire alcuni spunti di riflessione circa gli effetti che la L. n. 898/1970, confermata dal Referendum del 12 maggio 1974 (11), ha prodotto sull’evoluzione del diritto di famiglia del trascorso cinquantennio. Invero la legge, oltre ad aver fortemente inciso nella conformazione della famiglia e, conseguentemente, nella struttura della società italiana, ha inaugurato una stagione di riforme che si protrae fino ai giorni nostri. La sua portata innovativa si è sviluppata nel tempo su una pluralità di piani: in primis ha modificato il rapporto tra persona e comunità familiare, attribuendo primario rilievo alla libertà individuale di recidere il vincolo matrimoniale e dar vita ad un’altra famiglia. Ne è risultata così modificata la stessa morfologia della struttura familiare, deprivata del suo tradizionale pilastro, cioè l’indissolubilità del matrimonio: il matrimonio risolubile che reca la proprietà di essere sciolto e seguito da altro vincolo – è infatti tendenzialmente altro rispetto al matrimonio indissolubile, destinato a durare quanto la vita degli sposi (12). Si consideri, inoltre, che la riacquisizione della libertà di stato e la possibilità di più matrimoni non conseguenti alla vedovanza nella vita della persona, o di convivenze, diventate lecite dopo lo scioglimento del vincolo, ha favorito la formazione e il riconoscimento giuridico di nuovi modelli familiari.
L’introduzione del divorzio ha altresì contribuito significativamente a promuovere l’avvio di un progressivo percorso di “emancipazione” del diritto di famiglia, che fino ad allora non godeva di piena autonomia dal punto di vista scientifico e didattico: questa stessa Rivista ne costituisce evidente testimonianza. Infine, con l’avvento della mobilità della vita matrimoniale recata dal divorzio, la materia familiare Capovolgendo le parole di Paolo Ungari, consta- tiamo, dunque, che il mezzo secolo trascorso dal 1970 a oggi è stato contrassegnato da una serie di innovazioni legislative (15) e giurisprudenziali, che hanno radicalmente trasformato il diritto di famiglia. La significativa produzione legislativa nazionale deve inoltre essere considerata alla luce del contesto di moltiplicazione delle fonti normative, europee e convenzionali, che influiscono ed interferiscono, direttamente o per mezzo della rielaborazione e mediazione del legislatore interno, sulla intera nor- mativa che governa la materia familiare (16). In questo cinquantennio il diritto di famiglia è stato altresì notevolmente arricchito da numerosi inter- venti della Corte costituzionale (17), della Corte di cassazione (18) e della Corte EDU (i cui principi sono peraltro recepiti dalla Corte di Giustizia UE) (19), che nel loro complesso hanno attuato un costante adeguamento della disciplina positiva alle mutevoli esigenze di tutela scaturite dall’evoluzione del contesto sociale, economico e valoriale.
Si consideri che radicali trasformazioni dell’istituto matrimoniale sono state recate, più o meno intenzio- nalmente, anche dalla riforma della filiazione (L. n. 219/2012 e relativo decreto attuativo, D.Lgs. n. 154/ 2013). Il superamento della precedente prospettiva risulta ben scolpito in quella che può considerarsi la disposizione centrale enunciata dall’art. 315 c.c., rubricato “Stato giuridico della filiazione”, secondo cui “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico” (20). Assodata l’unicità dello stato di filiazione, deve tuttavia ricordarsi che il codice e le leggi speciali ne disciplinano l’attribuzione a seconda che la filiazione sia nel o fuori del matrimonio (21).
La visione privatistica entrata nell’ordinamento con la legge di cui celebriamo il cinquantenario, si è ulteriormente affermata con riguardo al tema assai dibattuto della apertura del matrimonio a persone dello stesso sesso. Come noto, nel nostro Paese il matrimonio resta caratterizzato dalla disparitas sexus, tuttavia il legislatore, su sollecitazione della Corte costituzionale (22), della Corte di cassazione (23) e di organismi sovranazionali (24), con L. 20 maggio 2016, n. 76, ha creato l’unione civile tra persone dello stesso sesso quale alternativa al matrimonio. Detto provvedimento ha prodotto un profondo mutamento nella struttura giuridica delle relazioni familiari, già notevolmente innovata a seguito della legislazione di cui sopra si è detto. Le relative dispo- sizioni, in maniera complementare rispetto a quelle che hanno introdotto lo stato unico di figlio, inter- vengono sul rapporto di coppia, dando forma, accanto a quello matrimoniale, a due nuovi tipi legali: l’unione civile (art. 1, commi 1-35, L. n. 76/ 2016), indirizzata a coppie di persone maggiorenni dello stesso sesso (25), e le convivenze di persone maggiorenni di diverso o dello stesso sesso, unite stabilmente da legami affettivi e di reciproca assi- stenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da unione civile (art. 1, comma 36, L. n. 76/2016) (26). Nel contesto di questo lavoro è opportuno richiamare le disposizioni contenute ai commi 23, 24 e 25 dell’art. 1, L. n. 76/2016, che disciplinano lo scioglimento dell’unione civile in modo alquanto differenziato rispetto al matrimonio. Da un lato, infatti, il comma 23 richiama i casi previsti dall’art. 3, nn. 1 e 2, lett. a), c), ed e), L. n. 898/1970 e non fa cenno all’ipotesi contenuta nell’art. 3, n. 2, lett. b) della medesima, in conseguenza del fatto che il legislatore non ha previsto nelle unioni civili l’istituto della separazione. D’altro canto, l’art. 1, comma 24, prevede una causa di scioglimento non contemplata nell’art. 3 l. div., disponendo che l’unione civile si scioglie quando le parti hanno manifestato, anche disgiuntamente, la corrispondente volontà dinanzi all’ufficiale dello stato civile; di poi, la domanda di scioglimento dell’unione civile può essere proposta decorsi tre mesi. La non perspicua formula del comma 24 enuncia dunque un “nuovo divorzio”, che prescinde dalla separazione e che può nascere anche da incondizionata volontà unilaterale; esso si articola attraverso un percorso bifasico costituito da un segmento amministrativo (dichiarazione di volontà presentata all’ufficiale di stato civile) e da un segmento giudiziale (domanda di scioglimento presentata davanti al tribunale nelle forme del comma 4). Ovviamente, la fase giudiziale può essere sostituita dalla negoziazione assistita o dall’accordo concluso dinanzi al sindaco secondo quanto previsto dalla L. n. 162/2014 richiamata dall’art. 1, comma 25, L. n. 76/2016 (27).
C’è da chiedersi se una consimile disciplina della crisi della coppia non rappresenti tout court un nuovo modello di divorzio, destinato, prima o poi, ad essere esteso al matrimonio.
In breve, la legge sul divorzio e le sue successive modificazioni hanno attuato la sostanziale libertà di conseguire il divorzio e la creazione di un nuovo nucleo familiare. Siamo consapevoli che oggi i diritti e gli interessi individuali dominano tutte le relazioni familiari, non solo degli adulti, ma anche dei figli, perché anche l’interesse del minore, che definiamo superiore, è pur sempre interesse individuale di uno specifico soggetto minore (28).
Ma tutto questo significa che negli ordinamenti europei contemporanei, con il venir meno dell’indissolubilità e l’affermazione della prospettiva individualistica si sia perduta la dimensione sociale dei rapporti familiari o che, invece, essa si presenti sotto diverse angolazioni? L’idea che mi pare prefe- ribile è la seconda, e del resto la pandemia ha messo in luce il ruolo solidaristico e la funzione sociale che nell’emergenza la famiglia ha pur sempre il compito di svolgere, specie con riguardo ai soggetti deboli. Occorre a questo punto rilevare che alla precarizzazione della relazione di coppia, avviatasi con l’introduzione del divorzio, l’ordinamento, cinquant’anni dopo, contrappone una forte consolidazione dei legami genitoriali, attuata attraverso strumenti giuridici che in passato non avevano ragione di esistere perché la tutela si indirizzava prioritariamente in favore dei figli legittimi, cosicché i legami verticali erano garantiti dalla indissolubilità del vincolo matrimoniale (29).
La stabilità del legame di filiazione si presenta sotto un duplice aspetto: in primo luogo con l’affermazione dello stato unico di figlio e con riguardo alle regole che, nell’ambito della crisi del rapporto genitoriale, disciplinano l’affidamento dei figli minori e gli obblighi nei confronti dei figli maggiorenni non autosufficienti; in secondo luogo, con riguardo al regime delle azioni di stato. Sotto il primo profilo occorre ribadire che, a seguito della riforma intervenuta, è stato affermato lo stato unico di figlio, il che significa che la condizione giuridica del nato è indipendente dalla sussistenza del vincolo matrimoniale tra i genitori, ed è uguale per tutti. Il dato di maggior interesse è che non solo è venuta meno la secolare differenziazione tra figli legittimi e figli naturali o illegittimi, ma che il matrimonio non è più la porta d’ingresso nella famiglia, in quanto il vincolo di parentela si instaura ora tra discendenti e collaterali indipendentemente dal rapporto giuridico matrimoniale dei genitori (30). Alla unicità dello stato di figlio corrisponde quella delle regole che governano la responsabilità genitoriale, che sono le stesse sia nel caso di matrimonio o convivenza dei genitori sia nel caso in cui essi vivono separatamente e non coabitano (31). In ogni caso i genitori esercitano la responsabilità di comune accordo e quindi devono relazionarsi tra loro per assumere le più opportune decisioni nei confronti dei figli, allo stesso modo in cui farebbero se coabitassero tutti assieme. Insomma, si è genitori per sempre e in coppia, non uti singuli. In maniera corrispondente, il figlio è titolare del diritto alla bigenitorialità, cioè a mantenere identici rapporti con i genitori e con i parenti dei relativi rami anche quando questi non convivano (32). Sembra dunque che il legislatore esiga che le relazioni familiari come tali non risentano del venir meno o addirittura dell’insussistenza ab origine della relazione orizzontale, che cinquant’anni fa costituiva la base della famiglia.
Un altro profilo testimonia l’intento del legislatore di rendere indissolubile il regime di filiazione, come è dato trarre dalla disciplina delle azioni di stato e, in particolare, dai limiti temporali all’accertamento della verità, limiti ai quali non soggiace il figlio per il quale le relative azioni sono imprescrittibili. Per gli altri, e particolarmente per colui che viene indicato come padre, decorsi cinque anni dalla nascita, le azioni di disconoscimento della paternità (art. 244, comma 5, c.c.) e di impugnativa del riconoscimento (art. 263, comma 4, prima parte, c.c.) non sono più esperibili e lo stato di filiazione si consolida anche se si scopra che esso non corrisponde alla verità biolo- gica della procreazione (33).
Conclusivamente, l’elemento biologico ha perduto quella primaria rilevanza che gli era stata attribuita dalla Riforma del 1975 ed è stato sostituito dall’interesse del figlio che, a ben vedere, riflette invero anche l’interesse più ampio dell’intera società alla stabilità della relazione con chi risulti suo genitore, affinché venga accudito e mantenuto nel contesto relazionale in cui è rimasto collocato per un tempo significativo (34). Come è stato scritto, una tale evoluzione si è resa necessaria “in tempi ove le famiglie sono fragili, le coppie instabili e i minori sballottati da una famiglia all’altra. Il minore, come detto, rimane uno degli ultimi elementi di stabilità a partire dal quale il legislatore potrà ricostruire il diritto della famiglia” (35). Un’evoluzione così radicale come quella che si è prodotta negli ultimi cinquant’anni può creare ad un tempo facili entusiasmi oppure desiderio nostal- gico di antichi modelli. Il giurista – in particolare se giudice e avvocato è tenuto ad attenersi con realismo a ciò che la concreta esperienza sociale, che peraltro non segue necessariamente un percorso lineare e progressivo, sottopone alla sua indagine. A questo riguardo, soccorrono le lucide parole scritte quasi cento anni fa da Thomas Mann a proposito della crisi del matrimonio, questione sulla quale già allora si rifletteva non senza preoccupazione: “In ogni campo la cosa più dannosa e più sbagliata è la restau- razione di ciò che fu, giacché indietro non si torna. Ogni evasione in forme storiche ormai svuotate di vita è oscurantismo; ogni pia repressione della conoscenza non produce che menzogna e malattia. È una pietas falsa, votata alla morte e in fondo priva di autentica fede, giacché non crede nella vita e nelle sue inesauribili forze risanatrici. La via dello spirito deve, in tutti campi, essere percorsa fino in fondo, affinché l’anima possa tornare ad essere. Non si tratta di reprimere e di restaurare, ma di assimilare, nel corpo e nello spirito, la nostra conoscenza, così da costruire una nuova dignità, una nuova forma, una nuova cultura” (36).