Michele Sesta, La prospettiva paidocentrica quale fil rouge dell’attuale disciplina giuridica della famiglia, in Famiglia e Diritto, 2021, VII, pp. 763-775

Premessa 

La prospettiva paidocentrica che pone al centro degli istituti del diritto di famiglia il minore è relativamente recente (1). Essa nasce a seguito delle profonde trasformazioni che hanno interessato la famiglia nel cinquantennio che ci separa dalla introduzione nell’ordinamento del divorzio (2). 

Il principio della salvaguardia dell’interesse “superiore” (3) del minore si è poi imposto, quale valore cardine del sistema, dopo la ratifica della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, approvata il 20 novembre 1989, e, più di recente, ha ricevuto conferma dall’art. 24, par. 2, della Carta dei Diritti Fondamentali Ue. Ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost. l’interesse superiore del minore è così asceso “a valore apicale del sistema” (4). 

Sulla scorta degli orientamenti emersi in sede inter- nazionale, si è quindi affermata, anche nel nostro ordinamento – e la riforma della filiazione ne ha recato ulteriore testimonianza (5) – una nuova considerazione della condizione del minore, non più soggetto incapace, mero destinatario di protezione, ma individuo titolare di diritti soggettivi che l’ordinamento deve non solo riconoscere ma anche garantire e promuovere in via prioritaria (art. 3, comma 2, Cost.). 

Il diritto del fanciullo a partecipare in prima per- sona alla propria formazione ed alle scelte che lo riguardano – proclamato dalla Convenzione di New York e ribadito dalla CDFUE – ha trovato attua- zione mediante il riconoscimento del suo diritto, nell’ambito delle procedure che lo coinvolgono, di esprimere liberamente la propria opinione su ogni questione che lo interessa, da prendersi in consi- derazione in funzione della sua età e del suo grado di maturità. Nella medesima direzione di valorizzazione della personalità del figlio, si colloca il diritto, ribadito dall’art. 315-bis, comma 3, c.c., di essere ascoltato, se ultradodicenne ovvero anche di età inferiore ove capace di adeguato discernimento, nelle questioni e nelle procedure che lo riguardano, così – a ben vedere anche indicando ai genitori un criterio pedagogico, cui essi devono attenersi nella relazione educativa con 

il figlio, basato sul dialogo e sulla persuasione e diretto a valorizzarne al massimo la persona (6). La priorità dell’interesse del figlio rispetto a quelli degli adulti, e, segnatamente, dei genitori, nella pratica giurisprudenziale viene in rilievo, tra l’altro e specie nei tempi più recenti, in materia di esercizio della responsabilità genitoriale, affidamento dei figli, attribuzione della casa familiare, adozione, conoscenza delle proprie origini, azioni di stato, in relazione ai rapporti tra tecniche di procreazione medicalmente assistita e alla determinazione dello status filiationis e, infine, di sottrazione dei minori (art. 13 Convenzione dell’Aja del 1980). 

Se rileggiamo le norme della Costituzione (7), rileviamo che in essa non vi è espressa menzione dell’interesse del minore (8). L’attenzione del costituente, che trae a modello la famiglia rurale dell’Italia postbellica, si concentra sui diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, secondo una visione che mette a fuoco nella istituzione familiare il punto di raccolta degli interessi dei membri che ne fanno parte, chiamati a fondersi e a sublimarsi nell’interesse del gruppo. È significativo, in questo quadro, il comma 2 dell’art. 29 Cost., che, nell’enun- ciare il rivoluzionario principio dell’eguaglianza morale e giuridica tra coniugi ne consente limitazioni a garanzia dell’unità familiare, che, dunque, sembra rappresentare il “superiore” bene tutelato. Allo stesso modo dicasi per i figli: è vero che nella Costituzione non c’è un riferimento lessicale alle categorie civili- stiche all’epoca vigenti dei figli legittimi e illegittimi, tuttavia, in essa i diritti dei figli nati fuori del matri- monio trovano tutela compatibilmente con quelli dei membri della famiglia legittima. In breve, la famiglia è una entità che nasce dal matrimonio e che trova al suo interno le regole volte a garantire la tutela dei suoi membri. In un consimile quadro, con riguardo speci- fico ai figli, l’ordinamento statale – tenuto a sostenere la famiglia, specie quella numerosa (art. 31 Cost.) – interviene solo in casi eccezionali e straordinari per rimuovere i poteri dei genitori che malamente li eser- citano (art. 330 c.c.) o per applicare le norme penali in presenza di comportamenti delittuosi (non tutti, invero, stante l’art. 649 c.p.). 

In questa cornice, non emerge l’esigenza di una specifica tutela giuridica del minore, che, ripetesi, trovava la sua garanzia nell’ambito interno della famiglia fondata sul matrimonio indissolubile, oppure in quello pubblicistico, per chi idonea famiglia non avesse, recante con sé l’istituzionalizzazione dei minori interessati. Può, peraltro, evidenziarsi come tutta una serie di disposizioni costituzionali faccia intravvedere l’idea del minore come persona titolare di propri diritti (9), prima fra tutte quella dell’art. 30 Cost., con l’ascendente gerarchia di valori recata dagli obblighi genitoriali di mantenere, istruire ed educare i figli (10). 

A ben vedere, nell’esperienza del nostro Paese, il tema dell’interesse del minore si è dunque affacciato alla ribalta da oltre mezzo secolo: un mezzo secolo di riforme, come in altra sede l’ho chiamato, in contrapposizione a quello – che va dal 1865 al 1919 – definito da Paolo Ungari (11) senza riforme. Fu la legge che introdusse l’adozione speciale (L. n. 431/ 1967), infatti, che per la prima volta manifestò in maniera esplicita l’attenzione del legislatore all’inte- resse dei bambini in stato di abbandono, consentendo addirittura che essi, anche se figli legittimi, fossero adottati da coppie coniugate, con l’effetto di recidere i vincoli giuridici con la famiglia di origine e crearne di nuovi con i genitori adottivi, in tutto e per tutto parificandoli a quelli propri della famiglia legittima. Si arrivò, dunque, a superare il dogma della società naturale fondata sul matrimonio per contrastare l’istituzionalizzazione dei minori (12). 

Alla base dell’adozione speciale stava infatti l’idea che l’interesse dei minori dovesse ricevere prioritaria tutela, non solo rispetto a quello degli adulti, ma anche a quello della stessa istituzione familiare, le cui ragioni furono posposte a quelle del figlio, sino a prevederne l’uscita dalla famiglia “di sangue” – se incapace a garantirne la crescita – e a collocarlo in un nuovo habitat familiare, alla stregua di un figlio biologico. Si realizzò in tal modo un inusitato supe- ramento delle norme fondanti i legami, gli status e i poteri familiari, in nome dell’affermazione del con- creto interesse del minore. Una vera e propria “rottura dello stesso principio-famiglia” (13). L’adozione è anche il campo in cui, fronteggiandosi diritti degli adulti e diritti dei minori, si è assistito talvolta, come è stato acutamente evidenziato, a una vera e propria eterogenesi dei fini: “la dichiarata priorità dell’inte- resse del minore si risolve nell’effettiva promozione dell’interesse degli adulti” (14). 

A tanti anni dall’entrata in vigore della normativa sull’adozione legittimante la giurisprudenza si mostra ormai consapevole del fatto che la sua pro- spettiva possa essere talvolta eccessiva, proprio in considerazione della recisione, che comporta, dei vincoli con la famiglia biologica. Di recente, infatti, la Corte di cassazione (15) ha affermato il seguente principio di diritto: “L’adozione c.d. ‘legittimante’, che determina, oltre all’acquisto dello stato di figlio degli adottanti in capo all’adottato, ai sensi dell’art. 27, comma 1, L. 4 maggio 1983, n. 184, la cessazione di ogni rapporto dell’adottato con la famiglia d’origine, ai sensi del comma 3, coesiste nell’ordinamento con la diversa disciplina ‘dell’adozione in casi particolari’, prevista dall’art. 44, L. n. 184 del 1983, che non comporta l’esclusione dei rapporti tra l’adottato e la famiglia d’origine; in applicazione degli artt. 8 CEDU; 30 Cost.; 1, L. n. 184 del 1983 e 315-bis, comma 2, c.c., nonché delle sentenze in materia della Corte EDU, il giudice chiamato a decidere sullo stato di abbandono del minore, e quindi sulla dichiarazione di adottabilità, deve accertare la sussistenza dell’interesse del medesimo a conservare il legame con i suoi genitori biologici, pur se deficitari nelle loro capacità genitoriali, costituendo l’adozione legittimante ‘un’extrema ratio’ cui può pervenirsi nel solo caso in cui non si ravvisi tale interesse; il modello di adozione in casi particolari, e segnatamente la previsione di cui all’art. 44, lett. d), L. n. 184 del 1983, può, nei singoli casi concreti e previo compimento delle opportune indagini istruttorie, costituire un idoneo strumento giuridico per il ricorso alla c.d. ‘adozione mite’, al fine di non recidere del tutto, nell’accertato interesse del minore, il rapporto tra quest’ultimo e la famiglia d’origine”. 

Nel 1967 si era aperta una breccia nel bastione che proteggeva l’isola dagli attacchi esterni, anche da quelli provenienti dagli Organi dello Stato per por- tare soccorso ai membri bisognosi di protezione. Di lì a poco ben altro varco si sarebbe aperto! Alludo alla legge sul divorzio, che da pochi mesi ha festeggiato il mezzo secolo (16). 

A mio avviso, è da queste due leggi che occorre muovere per lumeggiare la prospettiva paidocentrica che si è sviluppata nei tempi più recenti e che oggi attraversa e tiene unito l’intero diritto di famiglia. Recidere i vincoli con la famiglia d’origine incapace di assicurare il benessere del figlio ha significato affermare la superiorità del suo interesse rispetto a quello dell’istituzione in cui era nato e dei suoi genitori biologici; introdurre il divorzio ha significato consentire la risoluzione del matrimonio, cioè del presupposto costituzionale che contrassegna(va) i legami familiari. Di qui, in anni più recenti (L. n. 54/2006), è scaturita la necessità di garantire ai figli un collante che li mantenesse legati ai genitori indipendentemente dalla sussistenza di un vincolo giuri- dico tra i medesimi, affinché i loro interessi trovassero tutela e protezione a prescindere dal legame tra chi li aveva generati. 

Prima di queste leggi, superiore era l’interesse della famiglia, inteso come sovraordinato a quello dei singoli membri che ne facevano parte (17); dopo, superiore è diventato l’interesse del minore, cioè della parte debole della relazione familiare (18). Che si tratti di interesse superiore o, come esattamente si è precisato, del migliore interesse, esso deve comunque trovare un bilanciamento rispetto ad altri interessi, ancorché tale da consentire il suo soddisfacimento (19). Si tratta sempre di un interesse individuale, che si contrappone ad altri interessi individuali, secondo una dinamica che ha profondamente mutato le relazioni familiari. Il movimento è stato dai “diritti della famiglia” ai “diritti del familiare”, primi fra tutti quelli reciproci degli adulti a separarsi, divorziare e costituire una nuova famiglia (20), e, corrispondentemente, quelli dei minori a mantenere i legami con chi li ha generati.
Occorre a questo punto rilevare che alla precarizzazione della relazione di coppia incrementata dalla successiva legislazione in materia di negoziazione assistita, di divorzio breve, di unione civile e di convivenze – l’ordinamento oggi contrappone una forte consolidazione dei legami genitoriali (21), attuata attraverso strumenti giuridici che in passato non avevano ragione di esistere, perché la tutela legale si indirizzava prioritaria- mente in favore dei figli legittimi, cosicché i legami verticali erano garantiti dalla indissolubilità del vincolo matrimoniale (22). 

Sotto il primo profilo, occorre ricordare l’introduzione dello stato unico di figlio attuata nel 2012-2013, che ha comportato che la condizione giuridica del nato sia indipendente dalla sussistenza del vincolo matrimoniale tra i genitori, e sia identica per tutti. Il dato di maggior interesse è che non solo è venuta meno la secolare differenziazione tra figli legittimi e figli ille- gittimi o naturali, ma che il matrimonio non è più la porta d’ingresso nella famiglia, in quanto il vincolo di parentela si instaura ora tra discendenti e collaterali indipendentemente dal rapporto giuridico matrimoniale dei genitori (art. 74 c.c.) (23). In altri termini, la parentela non è più condizionata dal matrimonio, che ha così perduto una delle sue più essenziali finalità e si è ridotto a ornamento della relazione di coppia. All’unicità dello stato di figlio (24) – chiave di volta della riforma a tutela dell’interesse di tutti i figli, indipendentemente dalla modalità della loro nascita – corrisponde quella delle regole che governano la responsabilità genitoriale, che sono le stesse sia nel caso di matrimonio o convivenza dei genitori sia nel caso in cui essi vivono separatamente e non coabi- tano (25). In ogni caso i genitori esercitano la respon- sabilità di comune accordo e quindi devono relazionarsi tra loro per assumere le più opportune decisioni nei confronti dei figli, allo stesso modo in cui farebbero se coabitassero tutti assieme. Insomma, si è genitori per sempre e in coppia, non uti singuli. In maniera corrispondente, e questo è il punto che maggiormente qui interessa, il figlio è titolare del diritto alla bi-genitorialità, cioè a mantenere identici rapporti con i genitori e con i parenti dei relativi rami anche quando questi non convivano o convivano con altri (26). Sembra dunque che il legislatore esiga che le relazioni familiari come tali non risentano del venir meno o addirittura dell’insussistenza ab origine della relazione orizzontale, che nel passato regime costituiva la base della famiglia. Di qui il delicato tema della famiglia ricomposta o ricostituita, in cui l’interesse del figlio si riflette in un prisma che lo fa interagire con plurali relazioni socio-affettive (27). L’attuazione dell’interesse del minore nell’ambito dei rapporti di filiazione si presenta sotto molteplici aspetti, così da costituire quel fil rouge che attraversa i rinnovati istituti della famiglia, di seguito ripercorsi con particolare riguardo all’esercizio della responsabilità genitoriale, all’attribuzione e alla contestazione dello stato di figlio e alla p.m.a. 

Esercizio della responsabilità genitoriale 

Seguendo il percorso sopra indicato, deve essere ricordata la nuova visione della potestà genitoriale già affermatasi con la riforma del diritto di famiglia del 1975 – che sancì l’obbligo dei genitori di tenere conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli – venuta a compimento con la riforma del 2012-13, che ha introdotto la responsabilità genitoriale. La disposizione dell’originario art. 147 c.c., lungi dal costituire una formula di stile o programmatica, ha segnato uno dei momenti di maggiore innovazione attuati dal legislatore del 1975, distaccandosi dalla precedente visione del rapporto, caratterizzato dalla soggezione del figlio al potere dei genitori, diretto a conformarne la personalità secondo un modello predeterminato. Col richiamare capacità, inclinazioni e aspirazioni del ampio riferimento all’interesse del minore, che può addirittura impedire la formazione del titolo dello stato ogniqualvolta l’accertamento della genitorialità lo contrasti. Si osservi che, con riguardo al figlio nato fuori del matrimonio, vige il principio della volontarietà del riconoscimento anche rispetto alla madre: qui l’interesse del minore sembra recessivo rispetto alla volontà di chi lo ha generato, benché naturalmente sia prevista la possibilità per il figlio di agire per la dichiarazione giudiziale di genitorialità, anch’essa peraltro soggetta alla previa valutazione della sussistenza del suo interesse. 

In questo contesto, merita un cenno il tema dell’a- nonimato materno. Il nostro ordinamento riconosce, infatti, la facoltà alla partoriente salvo il caso in cui il figlio sia nato da p.m.a., stante il divieto di cui all’art. 9, L. n. 40/2004 – di non essere nominata nell’atto di nascita (art. 30, d.P.R. n. 396/ 2000) (34). Tale facoltà è riconosciuta anche alla donna coniugata, la quale, a differenza del marito per cui opera la presunzione ex art. 231 c.c. – può così impedire che si formi un atto di nascita che la indichi come madre, avvalendosi del diritto di rimanere anonima. A corollario della previsione di cui all’art. 30, l’art. 93, comma 2, d.P.R. n. 396/2000, dispone che il “certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che ren- dono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, avvalendosi della facoltà di cui all’art. 30, comma 1, d.p.r. n. 396/2000, pos- sono essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione del documento”. 

L’effetto del diritto all’anonimato è duplice: da un lato, quello di impedire la formazione di un titolo di stato in capo al nato; dall’altro, quello dell’inaccessi- bilità delle informazioni relative alla identità della partoriente da parte del figlio stesso e di soggetti terzi. Sotto altro profilo, merita un richiamo l’art. 28, L. n. 184/1983 alla cui stregua l’accesso alle informazioni da parte dell’adottato relative alle proprie origini “non è consentito nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata”. La Corte costituzionale (35) ha invero mitigato la portata totalmente preclusiva della dichiarazione di anonimato, affermando l’illegitti mità costituzionale dell’art. 28, comma 7, l. ad., nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione. A seguito dell’in- tervento della Corte, pertanto il figlio può richiedere al Tribunale che, nel rispetto della riservatezza, la madre sia interpellata per rinnovare a distanza di tempo quella volontà di anonimato o viceversa accettare che siano comunicate al figlio le sue generalità (36). 

L’anonimato sacrifica dunque l’interesse del figlio a conseguire uno stato genitoriale nei confronti del genitore biologico, in spregio peraltro al diritto/ dovere sancito dall’art. 30 Cost. Ci si imbatte così in una situazione in cui l’interesse del minore non è affatto superiore a quello della partoriente a mantere l’anonimato, il che richiede di individuare un bene di pari rango alla cui tutela è strumentale il sacrificio di tale interesse. 

Come è stato notato, “la segretezza è strumentale alla realizzazione dell’interesse del minore, in quanto fa prediligere alla madre di non abortire e di salvaguar- dare la salute del minore, oltre che sua, partorendo in una situazione protetta e evitando, dopo la nascita, ben più tragiche scelte come l’infanticidio o l’abban- dono indiscriminato” (37). 

A riguardo si segnala la recente sentenza Cass. Civ. n. 19824/2020, la quale ha precisato che l’azione giudiziale di accertamento della maternità ex art. 269 c.c., nel caso in cui la madre abbia esercitato il diritto al parto anonimo, è sottoposta alla condizione della sopravvenuta revoca della rinuncia alla genitorialità giuridica da parte della madre, ovvero alla morte di quest’ultima, non essendovi più in entrambi i casi elementi ostativi per la conoscenza del rapporto di filiazione e così dovendosi interpretare secondo una lettura costi- tuzionalmente e internazionalmente orientata la suddetta norma (38). 

Azioni di stato 

Come ha scritto Leonardo Lenti, “Fra gli strumenti di protezione e di promozione dei diritti del minore la necessità prioritaria di perseguire il suo benessere, vale a dire appunto ciò che comunemente si indica con la formula interesse del minore, ha un rilievo particolar- mente alto. I minorenni, dunque, hanno il diritto a che ciò abbia un valore prioritario per le decisioni che li riguardano e che queste siano prese a conclusione di una valutazione personalizzata delle circostanze. Oltre a indirizzare la condotta dei genitori che esercitano la responsabilità parentale come prescritto dall’art. 18 UNCRCe dall’art. 315 bis c.c. – questo deve anche essere lo scopo che regge ogni decisione giudiziaria o amministrativa che li riguardi, che incida sulla loro vita” (39). 

Questa affermazione è particolarmente sfidante nell’ambito delle azioni di stato volte ad accertare o a contestare lo stato di filiazione.
Occorre ricordare che prima delle riforme degli anni Settanta esse si uniformavano al principio del favor legitimitatis. Questo, da un lato, consentiva che le azioni di reclamo e di contestazione della legittimità fossero imprescrittibili, mentre, dall’altro, che l’azione di disconoscimento della paternità fosse riservata al solo marito, che doveva esercitarla subito dopo la nascita del figlio (40). Ciò garantiva la stabilità della famiglia e degli status, ma sacrificava l’emersione della verità genetica della filiazione. Per contro, l’azione di dichiarazione giudiziale della paternità inibita al figlio adulterino doveva essere promossa entro due anni dal raggiungimento della maggiore età del figlio, mentre l’azione di impugnativa del riconoscimento del figlio naturale era esperibile da chiunque ne avesse interesse ed era imprescrittibile, proprio in considerazione del fatto che in quell’epoca il figlio concepito fuori del matrimonio non disponeva di una piena e incondizionata tutela e soprattutto non era giuridicamente inserito in una rete di rapporti familiari. 

Con la riforma del diritto di famiglia ha trovato ingresso il principio della verità nei rapporti di filia- zione, che poteva essere accertata in un tempo anche molto successivo a quello della nascita. Occorre anche ricordare che il principio della verità poteva finalmente imporsi grazie ai progressi delle scienze mediche che, a partire dagli anni Ottanta, consentivano sia di escludere che di determinare con certezza la paternità del nato (41). 

Più di recente, il legislatore ha posto nuovi limiti temporali all’accertamento della verità, limiti ai quali tuttavia non soggiace il figlio per il quale le relative azioni sono imprescrittibili. Per gli altri, e particolarmente per colui che viene indicato come padre, decorsi cinque anni dalla nascita, le azioni di disconoscimento e di impugnativa del riconosci- mento non sono più esperibili e lo stato di filiazione si consolida, anche se successivamente si scopra che esso non corrisponde alla verità biologica della procreazione (artt. 244, comma 5, c.c. e 263, comma 4, prima parte, c.c.) (42). 

Conclusivamente, l’elemento genetico ha perduto quella primaria rilevanza che gli era stata attribuita ed è stato sostituito dall’interesse del figlio – che, a ben vedere, riflette invero anche l’interesse più ampio dell’intera società alla stabilità della relazione con chi risulti suo genitore, affinché sia accudito e mantenuto nel contesto relazionale in cui è rimasto collocato per un tempo significativo (43). Come è stato scritto, una tale evoluzione si è resa necessaria “in tempi ove le famiglie sono fragili, le coppie instabili e i minori sballottati da una famiglia all’altra. Il minore, come detto, rimane uno degli ultimi elementi di stabilità a partire dal quale il legislatore potrà ricostruire il diritto della famiglia” (44). 

In tema di interesse del minore nelle azioni di stato, merita particolare attenzione il potere del P.M. di richiedere al Tribunale la nomina di un curatore speciale del minore, diretta all’esercizio dell’azione di disconoscimento della paternità ex art. 244, comma 6, c.c., o dell’impugnazione del riconosci- mento per difetto di veridicità ex art. 264 c.c. La materia coinvolge direttamente il complesso rapporto tra verità genetica della procreazione e interesse del minore al suo effettivo accertamento, sul quale, anche di recente, sono ripetutamente intervenute, invero in maniera non del tutto univoca, sia la Corte di cassazione che la Corte costituzionale. Quanto all’azione di disconoscimento della pater- nità, occorre ricordare che, ai sensi dell’art. 244, comma 6, c.c., essa, oltre che dal marito, dalla madre e dal figlio maggiorenne, può essere altresì promossa “da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del figlio minore che ha compiuto i quattordici anni ovvero del pubblico ministero o dell’altro genitore, quando si tratti di figlio di età inferiore”. 

La disposizione fu originariamente introdotta dall’art. 61, L. n. 184/1983, che, per la prima volta, consentiva che l’azione in questione fosse promossa, ancorché mediante un curatore speciale del minore a iniziativa di un soggetto estraneo alla famiglia, qual è il P.M. La norma in questione – piuttosto che con- sentire l’affermazione incondizionata della verità biologica, anche contro la volontà e gli interessi dei familiari, e assecondare la pur legittima intenzione del preteso padre biologico di far risultare la propria genitorialità è diretta a garantire un intervento giudiziale in situazioni nella quali la difformità tra verità legale e verità biologica possa arrecare nocumento al figlio. A seguito della riforma della filiazione del 2012/2013, la norma è stata ulteriormente modificata, con l’aggiunta della previsione, per quanto attiene al figlio infraquattordicenne, che l’istanza per la nomina del curatore speciale può provenire, oltre che dal pubblico ministero, anche dall’“altro genitore”, che, secondo l’opinione preferibile, deve identificarsi con la madre e/o col marito decaduti dall’azione ex art. 244, commi 1 e 4, c.c. per decorso dei termini ivi previsti. 

Si tratta dunque di mettere a fuoco in primo luogo i presupposti dell’esercizio del potere attribuito al P.M. Sul punto la legge è laconica, prevedendo l’assun- zione di sommarie informazioni solo con riferimento alla nomina da parte del giudice, e non specifica- mente con riguardo alla precedente istanza del P.M. La prassi ha evidenziato situazioni nelle quali il P.M. – a seguito di notizie riferitegli per lo più dal preteso padre naturale circa una sua relazione con la madre chiede puramente e semplicemente al Tribunale di disporre la nomina del curatore. 

Non credo che una simile prassi sia condivisibile, e tenterò quindi di dimostrare come l’istanza del P.M. debba necessariamente essere avanzata all’esplicito fine di tutelare un concreto interesse del figlio minore a che venga rimossa la paternità legale; il che, naturalmente, richiede che l’istanza, direi ai fini della sua ammissibilità, alleghi e documenti circostanze di fatto tali da far risultare l’esistenza di tale interesse. Diversamente, essa avrebbe un carattere esplorativo e potrebbe, per il solo fatto della sua presentazione, recare pregiudizio alla stabilità della famiglia in cui il minore è inserito e, quindi, in definitiva, nuocere al suo stesso interesse. 

In ogni caso l’apprezzamento della sussistenza dell’interesse del minore è compito preciso del tribunale adito. Appare quindi del tutto condivisibile un provvedimento del Tribunale di Bologna che ha rilevato come “la proponibilità dell’azione di disconoscimento in nome del minore infraquattordicenne è quindi soggetta prima alla valutazione del PM, che valuta se proporre o meno l’istanza al tribunale, che valuta se nominare o meno un curatore per la proposizione dell’azione di disconoscimento. Il tribunale deve effettuare autonomamente tale valutazione, apprezzando l’interesse effettivo del minore all’azione, non essendo sufficiente alla nomina del curatore la preliminare valutazione favorevole del PM”; da ciò si conferma come anche costui sia tenuto ad effettuare la relativa delibazione (45). 

Come sopra si è accennato, l’unica finalità della nomina di un curatore speciale ai sensi dell’art. 244, comma 6, c.c., tale da renderla costituzionalmente compatibile, è quella di assicurare l’attuazione di un concreto e non altrimenti tutelabile interesse del minore, di guisa che il procedimento in questione può essere eccezionalmente avviato ad opera di un soggetto diverso dal figlio, dalla madre e dal marito, a condizione che il giudice sia messo in grado di valutare che, all’esito di tale procedimento e subordinatamente alla prova del mancato rapporto di filiazione, la rimozione dell’esistente stato di figlio matrimoniale produca un effetto positivo e non già pregiudizievole nella sfera del minore, e corrisponda, quindi, a un suo reale, attuale e non procrastinabile interesse. 

Ciò può ricavarsi già da quanto fu stabilito a chiare lettere dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 429/1991 (46), nella quale fu precisato che, mentre il minore ultrasedicenne (oggi ultraquattordicenne) può valutare autonomamente il proprio interesse all’azione, qualora l’iter processuale venga avviato dal pubblico ministero, il giudice richiesto di nominare il curatore deve valutare l’interesse attuale del minore, della cui sussistenza il Tribunale è tenuto a dar conto nel provvedimento di nomina.
Più di recente la prima Sezione della Corte di cassazione (47), annullando la sentenza di appello – che aveva ritenuto nella specie non rilevante l’accertamento relativo all’interesse del minore ai fini del disconoscimento – ha chiarito che la tutela del pre- detto interesse è centrale anche nelle azioni di stato, e che la ricerca della verità biologica non ha preminenza assoluta, in quanto il quadro normativo attuale impone il suo bilanciamento “con l’interesse alla stabilità dei rapporti familiari, nell’ambito di una sempre maggior considerazione del diritto all’identità non necessariamente correlato alla verità biologica, ma ai legami affettivi e personali sviluppatisi all’in- tero di una famiglia. Tale bilanciamento, traguardato nell’ottica dell’interesse superiore del minore, non può costituire il risultato di un valutazione astratta: in proposito deve richiamarsi il costante orientamento di questa Corte in merito alla necessità di un accertamento in concreto dell’interesse del minore nelle vicende che lo riguardano, con particolare riferimento agli effetti del provvedimento richiesto in relazione all’esigenza di uno sviluppo armonico dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale”. È altresì significativo il passo della motivazione in cui si afferma che occorre “sgombrare il campo dalla suggestione che il giudice investito della domanda dal curatore speciale sia esonerato dalla valutazione della rispondenza o meno degli effetti del disconoscimento all’interesse del minore, perché già effettuata in relazione all’istanza del pubblico ministero in relazione alla nomina del curatore speciale stesso”: dal che risulta evidente che la valutazione dell’interesse del minore deve essere effettuata non solo nel procedimento ex art. 244, comma 6, c.c., ma anche nel giudizio di merito. 

Per contro, la medesima prima Sezione (48) ha con- fermato una decisione di merito, la quale aveva accolto la domanda di disconoscimento della paternità promossa da un curatore speciale, senza aver valutato, a quanto risulta dalle censure sollevate dal ricorrente, l’interesse del minore rispetto alle conseguenze della decisione sul suo equilibrio nella fase preadolescienziale in cui si trovava. Secondo il ricorrente non doveva essere riconosciuto un valore preminente alla verità biologica, essendo il suo accertamento precluso all’esito di valutazione di opportunità attinenti alla condizione del minore. La Cassazione, da un lato, in guisa di obiter dictum, ha ritenuto che la Corte di merito avesse argomentato in ragione all’interesse del minore “evidenziando il valore positivo della conoscenza della verità, non contrastata da elementi idonei a far presumere il rischio di un concreto pregiudizio”; dall’altro, richiamando le sentenze della Corte costituzionale nn. 322/ 2011 (49), 216/1997 (50) e 112/1997 (51), ha esplicitamente statuito che l’apprezzamento dell’interesse del minore “trova istituzionale collocazione nel procedimento diretto a quella nomina [del curatore speciale] essendo, nel corso di esso, possibile l’acquisizione di necessari elementi di valutazione e dovendosi, col provvedimento conclusivo, [omissis] giustificare congruamente le conclusioni raggiunte in ordine alla sussistenza dell’interesse ma non anche nel successivo giudizio di merito. [omissis] Una diversa interpretazione in base alla quale la valutazione dell’interesse del minore dovrebbe essere effet- tuata anche nel giudizio di merito, ai fini dell’ammissibilità dell’azione di disconoscimento proposta dal curatore, non solo è priva di basi normative, [omissis] ma rappresenterebbe un’inutile duplicazione di un’indagine già compiuta e sottoposta al vaglio del giudice ai fini della nomina del curatore”. 

Il contrasto sul punto rispetto alla sentenza n. 26767/ 2016 è, all’evidenza, netto.
Dopo pochi mesi, sempre la prima Sezione (52), accogliendo il ricorso avverso la pronuncia di merito che aveva disposto il disconoscimento del figlio, ha affermato i seguenti principi: 

1°) il favor veritatis non costituisce un valore di rilevanza costituzionale assoluta;
2°) l’esaltazione dell’interesse del minore e la necessità di una sua costante valutazione impone anche una verifica condotta in termini di attualità, in sede di merito e anche di appello, cosicché è proprio nella sede di merito che il controllo della sussistenza dell’interesse del minore va operato in termini sindacabili dalla Corte.
Come si è anticipato, le considerazioni che prece- dono valgono anche con riferimento all’impugna- zione del riconoscimento per difetto di veridicità (art. 264 c.c.). 

Tanto precisato, merita porre il problema dell’ascolto del minore ex art. 315-bis, comma 3, nell’ambito dei procedimenti di cui si è detto, specie di quello attinente alla nomina di un curatore speciale ai sensi degli artt. 244 o 264 c.c. Il problema pare particolar- mente complesso perché l’audizione del minore in questi casi significa disvelargli le pretese di un soggetto che intende contestare il suo stato di filiazione, il che può sicuramente recare grave nocumento alla sua integrità psicologica. Ci si trova in un’ipotesi non espressamente normata, diversamente da quanto disposto dagli artt. 336-bis e 337-octies c.c., alla quale ritengo possa per analogia applicarsi il principio fissato da quest’ultima norma alla cui stregua “Il giudice non procede all’ascolto se in contrasto con l’interesse del minore” (53). 

Tecniche di procreazione medicalmente assistita, stato di filiazione e interesse del minore 

È a tutti noto il processo di erosione subito dalla L. n. 40/2004, le cui limitazioni sono state progressiva- mente rimosse ad opera soprattutto della Corte costituzionale e dei giudici, ordinari e amministrativi (54). Le tecniche di p.m.a., così come, sotto altro versante, l’adozione, hanno talvolta messo in contrapposizione l’interesse del nascituro e quello degli adulti che a dette tecniche ricorrono in nome di un preteso diritto alla procreazione. A mio avviso il punto di bilanciamento di questi talvolta contrapposti interessi individuato dal legislatore è stato spostato dai citati interventi, che lo hanno riposizionato a vantaggio degli adulti, così come era accaduto con riferimento alla differenza di età tra adottanti e adottato (55).
Una pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione (56), facendo ampio richiamo ai principi costituzionali in materia familiare, ha contribuito alla analisi dell’interesse del minore nell’attribuzione, nella conservazione o nella circolazione dello status del nato, con riguardo alle tecniche di procreazione medicalmente assistita. 

La fattispecie esaminata era scaturita da maternità surrogata praticata all’estero su committenza di una coppia formata da individui di sesso maschile. I genitori intenzionali risultavano tali sulla base di atti formati all’estero in due distinti momenti. L’ufficiale di stato civile italiano, che aveva provveduto alla trascrizione del primo atto, in cui risultava padre il genitore biologico, aveva rifiutato di provvedere alla rettificazione dell’atto medesimo, richiestagli al fine di far risultare una seconda paternità in capo all’altro membro della coppia con il quale i nati non avevano alcun rapporto genetico. 

La Corte d’Appello di Trento (57) aveva ritenuto che il divieto posto dalla L. n. 40/2004 non precludesse il riconoscimento in capo al genitore intenzionale. Con riferimento alla sentenza del 2016 (58), che era stata invocata dalla Corte d’Appello come precedente coerente rispetto alla propria decisione, le Sezioni Unite hanno evidenziato le differenze tra le due fattispecie, poiché la prima aveva ad oggetto la trascrizione nei registri dello stato civile di un atto di nascita formato all’estero riguardante un minore generato da due donne a ciascuna della quali egli risultava legato da un legame rispettivamente biologico e genetico, senza che si desse luogo a surrogazione di maternità; mentre quella oggetto della decisione è annoverabile a pieno titolo tra le ipotesi di maternità surrogata caratterizzandosi proprio per l’accordo intervenuto con una donna estranea alla coppia genitoriale committente, che aveva provveduto alla gestazione e al parto, rinunciando tuttavia ad ogni diritto sui nati. Conseguentemente, le Sezioni Unite hanno confermato quanto in precedenza deciso dalla sentenza n. 24001/2014 (59), secondo la quale il divieto posto dall’art. 12, comma 6, L. n. 40/2004, è qualificabile di ordine pubblico stante la sanzione penale che com- mina in caso di violazione, facendo notare che vengono in rilievo la dignità della gestante e l’istituto dell’adozione con i quali la surrogazione si pone in conflitto; quella sentenza aveva escluso che tale divieto si ponesse in contrasto con l’interesse del minore, rilevando che tale interesse si realizza proprio attribuendo la maternità a colei che partorisce e affidando all’adozione la realizzazione della genitorialità disgiunta dal legame biologico. 

Le Sezioni Unite hanno censurato dunque la deci- sione tridentina sia perché aveva negato che l’art. 12, L. n. 40/2004, costituisse norma di ordine pubblico, sia perché in contrasto con le indicazioni emergenti dalla giurisprudenza costituzionale e specialmente dalla sentenza Corte cost. n. 272 del 2017, nella quale è stato scritto a chiarissime lettere che il divieto della maternità surrogata impone la presa d’atto della verità, che in questo specifico caso riveste natura pubblica “in quanto correlato a una pratica che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, e per tale motivo è vietata dalla legge” (60). 

È interessante notare che, in quest’ottica, l’interesse del minore non può essere demandato ad una generica e astratta valutazione di un indimostrato e presunto vantaggio a che il figlio mantenga lo status conseguito all’estero, nonostante la pacifica insussistenza di un rapporto biologico con il genitore intenzionale. Osservano le Sezioni Unite, sulla scia della Corte costituzionale (61), che un consimile interesse è comunque “destinato ad affievolirsi in caso di ricorso alla surrogazione di maternità il cui divieto, nell’ottica fatta propria dal giudice delle leggi, viene a configurarsi come l’anello necessario di congiunzione tra la disciplina della procreazione medicalmente assistita e quella generale della filiazione, segnando il limite oltre il quale cessa di agire il principio di autoresponsabilità fondato sul consenso prestato alla predetta pratica e torna ad operare il favor veritatis, che giustifica la prevalenza dell’identità genetica e biologica” (62). 

Alla luce di quanto precede, il (presunto) interesse del figlio a mantenere relazioni personali e affettive, anche solo di fatto, intercorrenti con i committenti non può superare quello tutelato dal divieto di surrogazione di maternità, dovendosi così negare che esso possa costituire criterio fondativo di un vero e proprio rapporto di filiazione (63). 

Nonostante la decisione delle Sezioni Unite del 2014, la Prima sezione con l’ordinanza Cass. Civ. n. 8325/2020 (64) ha rimesso nuovamente alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni che non consentono di riconoscere in Italia, perché in contrasto con l’ordine pubblico, un provvedimento giudiziario straniero che attribuisca lo stato di genitori a due uomini italiani uniti civilmente, che abbiano fatto ricorso alla tecnica della maternità surrogata. 

Al riguardo è intervenuta la sentenza n. 33/2021 della Corte costituzionale (65). La Corte, da un lato, sembra ribadire la qualificazione del divieto penalmente sanzionato di surrogazione di maternità come principio di ordine pubblico in quanto posto a tutela dei valori fondamentali; dall’altro, tuttavia, procede ad analizzare gli interessi del bambino nato mediante maternità surrogata nei suoi rapporti con la coppia (omosessuale o eterosessuale) che ha sin dall’inizio condiviso il percorso che ha condotto al suo concepimento e alla sua nascita nel territorio di uno Stato, dove la maternità surrogata non è contraria alla legge, e che quindi lo ha portato in Italia per prendersene cura. A tale proposito la Consulta valuta che l’interesse di quel bambino sia “di ottenere un riconoscimento anche giuridico dei legami che, nella realtà fattuale, già lo uniscono a entrambi i componenti della coppia, ovviamente senza che ciò abbia implicazioni quanto agli eventuali rapporti giuridici tra il bambino e la madre surrogata”. La Corte, tuttavia, avverte che un consimile interesse non possa “essere considerato automaticamente prevalente rispetto a ogni altro controinteresse in gioco”. Di guisa che “gli interessi del minore dovranno essere allora bilanciati, alla luce del criterio di proporzionalità, con lo scopo legittimo perseguito dall’ordina- mento di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità, penalmente sanzionato dal legislatore”. Un consimile bilanciamento, da attuarsi alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, secondo la Corte spetta “in prima battuta al legislatore, al quale deve essere riconosciuto un significativo mar- gine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e principi in gioco”. Così, “[d]i fronte al ventaglio delle opzioni possibili, tutte compatibili con la Costituzione e tutte implicanti interventi su materie di grande complessità sistematica”, la Corte si è allo stato arrestata, cedendo “doverosamente il passo alla discrezionalità del legislatore, nella oramai indifferibile individuazione delle soluzioni in grado di porre rimedio all’attuale situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore”. 

In altre parole – con indicazioni e toni invero non del tutto convincenti e ben lontani da quelli della sentenza Corte cost. n. 272/2017 -, la Corte, senza mettere in discussione il divieto penalmente sanzionato di maternità surrogata, sembra opinare che l’attuale quadro giuridico non assicuri piena tutela agli interessi del bambino nato con questa tecnica. Proprio a tal fine afferma la necessità di un intervento organico del legislatore, caldeggiando l’alternativa tra una rivisitazione delle norme in tema di ricono- scimento e una nuova forma di adozione capace di assicurare le prerogative proprie della adozione piena. Ancora più di recente, le Sezioni Unite, con sentenza n. 9006/2021, sono tornate sul disvalore che l’ordi- namento imputa alla pratica della maternità per sostituzione e sulla dialettica con il best interest of the child (66) in una fattispecie in cui non di surrogazione si trattava, quantomeno esplicitamente, bensì di adozione. La Corte era chiamata a deliberare in ordine alla trascrivibilità dell’Order of Adoption emesso nei confronti di una coppia omosessuale maschile dalla Surrogate’s Court dello Stato di New York, sulla base del mero consenso prestato dai genitori biologici del minore e di un esame della coppia adottante condotto da un’agenzia equi- parabile ai Servizi sociali. Nella specie, a fronte del diniego dell’ufficiale dello stato civile alla trascrizione dell’atto, la Corte d’Appello di Milano aveva disposto il riconoscimento del provvedimento estero di adozione piena e legittimante del minore. A seguito di ricorso del Sindaco in qualità di ufficiale di governo la questione è stata portata avanti le Sezioni Unite, che hanno confermato la trascrivibilità, in considerazione del miglior interesse del minore adottato, corrispondente alla stabilità della vita familiare già condotta e consolidata nell’ordinamento straniero con entrambi i genitori adottivi. La Corte argomenta che detta conformità all’ordine pubblico internazionale presuppone sempre che la coppia omoaffettiva non abbia fatto ricorso a prati- che di maternità surrogata. Non trattandosi di nato da gestazione condotta per altri (67), la Corte non ravvisa la sussistenza della condizione propriamente ostativa all’ammissione del provvedimento straniero in questione. La Corte aggiunge che, in caso di maternità surrogata, detta condizione ostativa si veri- fica sia in capo a coppie omosessuali che eterosessuali invariabilmente. Nel qual caso, ricorda la Corte, il miglior interesse del minore troverà diversa e idonea tutela nelle forme dell’adozione in casi partico- lari (68). In conclusione la sentenza ribadisce la netta chiusura alla maternità surrogata. 

Alla luce si tutto quanto precede, ritengo si possa osservare che, a ben vedere, la preclusione al ricono- scimento di effetti agli accordi di surrogazione di maternità non riposi esclusivamente sull’art. 12, L. n. 40/2004, quanto piuttosto proprio sui principi costituzionali rinvenibili negli artt. 2, 29, 30 e 32 Cost. che, a mio avviso, rappresentano uno sbarramento invalicabile agli atti e provvedimenti esteri, qualunque sia la nozione di ordine pubblico che si intenda adottare, essendo incontroverso che in ogni caso atti e provvedimenti stranieri non possano mai ledere i principi fondamentali della Costituzione (69). Sia poi consentito osservare che nella maternità surrogata, anche in quella oblativa, tutto all’opposto di quanto accade con l’adozione, che serve a dare una famiglia a chi non ce l’ha (70), si crea ad arte una vita al fine ultimo di cederla ai committenti poco importa se a titolo gratuito o di solidarietà e se la coppia committente sia di persone di diverso o dello stesso sesso; con la pretesa giuridica, da un lato, di impedire il sorgere dello status di maternità in capo alla donna partoriente e, dall’altro, di crearne altri in capo a soggetti che abbiano espresso una conforme intenzione, in spregio agli artt. 29 e 30 Cost. Ma ancor prima, quello che a mio avviso la Costituzione nega è che una persona umana nella specie il figlio che viene pianificato e artificialmente procreato per contratto sia concepita e messa al mondo da terzi allo scopo esclusivo di assicurare il soddisfacimento dell’interesse di avere figli di chi, estraneo al concepimento e alla gestazione, non è in grado di averne. È significativo richiamare non solo l’art. 2, ma anche l’art. 32 Cost., che, nel tutelare la salute come fondamentale diritto dell’individuo, stabilisce che in materia di trattamenti sanitari “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. È ovvio che il riferimento è in primo luogo alla persona del soggetto dei trattamenti sanitari, che, tuttavia, nella complessa tecnica medica che con- duce alla gestazione nell’interesse di altri, va indi- viduata anche, e sin dal suo concepimento, in quella del nato, la cui dignità deve dunque essere preservata, con la conseguenza di vietare che la sua messa al mondo venga strumentalmente attuata al fine di superare la sterilità – non importa se con- tingente o assoluta – della coppia committente. In questo senso vanno apprezzate le dure, chiare e profonde parole della Consulta che si leggono nella sentenza Corte cost. n. 272/2017, secondo le quali la surrogazione “mina nel profondo le relazioni umane”, indissolubilmente riferite alla condanna, ricavabile dalle disposizioni testé citate, di ogni forma di assoggettamento di un essere umano al soddisfacimento di bisogni altrui e suscita apprensione la diversa prospettiva delineata dalla sentenza Corte cost. n. 33/ 2021, che, ancora una volta, rende attuali le parole di Leonardo Lenti ricordate in apertura. 

Vengono, dunque, ancora alla ribalta le questioni di fondo che reca l’applicazione del principio del supe- riore interesse del minore: possono essere oltrepas- sati nel suo nome il principio di legalità e, addirittura, i divieti che riflettono i principi costi- tuzionali? Può il presumibile interesse di un singolo minore travolgere il principio di legalità posto a tutela del bene dei bambini in generale? Nella sentenza n. 33/2021 la Consulta sembra rispondere affermativamente sul presupposto che “ogni soluzione che non dovesse offrire al bambino alcuna chance di un tale riconoscimento, sia pure ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice, finirebbe per strumentalizzare [sic] la persona del minore in nome della pur legittima finalità di disincentivare il ricorso alla pratica della mater- nità surrogata”. 

A ben vedere, sono gli stessi temi sollevati tanti anni fa nella vicenda di Serena Cruz. Ad avviso di chi scrive, allora come ora, merita attenta considerazione quanto scrisse la Corte d’Appello di Torino, e cioè che “la legge difende le persone di tutti i bambini. Rifiutando di tradire la legge e di ‘legalizzare la frode ad essa’, i giudici operano al servizio dell’in- teresse di tutti i bambini. Se tale rifiuto produce una sofferenza per Serena, quella sofferenza non è conseguenza dell’applicazione della legge, bensì della prolungata frode di chi l’ha violata” (71). 

Competenze

Postato il

22 Giugno 2021

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