Si segnala la sentenza n. 21964/2024 della Suprema Corte, che aderisce al consolidato orientamento per cui la consapevole violazione da parte del genitore dei doveri sul medesimo gravanti nei confronti della prole, che è “assoluta” nell’ipotesi in cui il padre non provveda al riconoscimento del figlio, è condotta rilevante ai fini della configurabilità dell’illecito endofamiliare.

Ciò sul presupposto, come ribadito dalla pronuncia in commento, che gli obblighi del genitore nei confronti della prole e, dunque, gli speculari diritti in capo al figlio, sorgono per il fatto stesso della procreazione. Stante tale automatismo, il figlio acquisisce sin dalla nascita il diritto a essere mantenuto, istruito, educato, curato, allevato dai genitori, di ricevere assistenza sia sul piano patrimoniale, che affettivo/personale, e a intrattenere rapporti con gli stessi. Egli, dunque, ha titolo per far valere la responsabilità del padre assente e disinteressato e a pretendere che il rapporto di filiazione sia costituito attraverso l’esercizio dell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità.

Affinché sia configurabile l’illecito, vi deve essere “consapevolezza” del concepimento in capo al padre. Essa non va intesa quale certezza assoluta della paternità, che d’altronde può essere raggiunta solo con la prova ematologica, ma può ritenersi sussistente al ricorrere di una serie di elementi indiziari, che convergano verso la verosimiglianza del legame genitoriale.

Il figlio potrà, dunque, pretendere il risarcimento del danno non patrimoniale in relazione alla sofferenza patita per l’assenza della figura paterna e per l’aver vissuto con la consapevolezza di non essere stato desiderato e voluto, con ogni ripercussione sullo sviluppo psico-fisico e sulla dimensione affettiva e relazionale. Del pari, potrà essere richiesto il risarcimento dei pregiudizi di carattere patrimoniale, tra cui la perdita della possibilità di acquisire una posizione sociale ovvero di intraprendere un percorso di studi e/o professionale coerente e adeguato alla posizione e alle capacità economico-reddituali paterne.

Passando al profilo della quantificazione del danno, la giurisprudenza pacificamente ammette il ricorso al criterio equitativo (artt. 1226 e 2056 c.c.). Onde consentire la “oggettivizzazione” del danno, sono abitualmente prese a riferimento le cd. “tabelle milanesi” per il danno da lesione del rapporto parentale (tra le tante, Cass. 34986/2022), salva la necessità di adottare i necessari correttivi in ragione della peculiarità della fattispecie concreta onde consentire l’effettiva “personalizzazione” del danno.

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